Il palazzo: Federica Di Giacomo e la fenomenologia del “gesto incompiuto”

Dopo Liberami, premiato con il Leone come Miglior Film nel Concorso Orizzonti alla settantatreesima Mostra del Cinema di Venezia, Federica Di Giacomo torna nel 2021 al festival con un documentario in cui, ancora una volta, si avventura in una realtà nascosta ai più, riuscendo a farne emergere la dimensione universale.

Il palazzo suggerito dal titolo è un edificio situato a Roma, vicino San Pietro, messo a disposizione da un eclettico mecenate a tutti coloro che intorno alla metà degli anni Novanta volevano fare un’esperienza diversa di vita, in cui la soglia tra arte ed esistenza si assottigliava fino a svanire.

“Ho iniziato a frequentare il Palazzo molti anni fa. Un microcosmo di rara libertà creativa ma completamente avulso dalla realtà. Avevo da poco iniziato il film quando Mauro improvvisamente morì. Durante la sua commemorazione sentii che ognuno di noi si stava segretamente comparando all’amico scomparso, cercando di capire quanto avessimo in comune con lui e cosa invece ci potesse distanziare da un destino così amaro. L’immenso archivio che Mauro ha lasciato costruisce il rapporto fra la nostra immagine e quella che il passato ci restituisce attraverso la memoria orale e visuale dei nostri amici. Tutto il gruppo, infatti, ha già recitato per Mauro e in un certo senso recita se stesso anche per me, questa volta senza copione, con grande autoironia in un gioco fra realtà e finzione” dichiara la regista.

Mauro Fagioli, che più degli altri s’immerse in quel contesto atipico, è il personaggio intorno a cui, dopo il prematuro decesso, si riuniscono quanti, anni prima, avevano vissuto un modo di “essere nel mondo” alternativo, che contestava tacitamente la monotonia del quotidiano, quel rigido ordine simbolico in cui per lo più siamo tutti fatalmente catturati.

La regista, che conosceva personalmente l’ambiente, avendolo frequentato, è abile a far sprofondare lo spettatore in una dimensione di sospensione, che si potrebbe definire del “gesto mancato” o, se preferite, “a vuoto”. Sì, perché tutto quel fermento che si visse in quel periodo non confluì in una realizzazione concreta, una o più opere che, in un certo senso, attestassero il risultato di un atto creativo. Mauro, nella fattispecie, per anni girò un film con tutti gli inquilini del palazzo, producendo un mastodontico materiale che non ha mai trovato un compimento, un montaggio finale, un epilogo. Insomma, utilizzando il gergo aristotelico de La metafisica, Di Giacomo indugia coraggiosamente sulla Potenza che si ostina a non diventare Atto.

La temporalità di questo nebuloso intervallo non è cronologica, non può essere misurata, piuttosto coinvolge nel profondo tutti coloro che vi sono sprofondati, senza che di essa possa essere fornita una testimonianza precisa, storica, laddove mancano tracce sicure ed evidenti che consentano di procedere a una ricostruzione esatta. Ed è per questo che, ancor di più, è apprezzabile il lavoro della regista che, coscientemente, ha deciso di confrontarsi con “l’ineffabile”, con qualcosa che eccede la possibilità della rappresentazione, in un corpo a corpo tra cinema e ciò che non si manifesta in quanto fenomeno. Il palazzo non è, quindi, solo il reportage di un’esperienza particolare, piuttosto il coraggioso tentativo di evocare l’invisibile, segnalandolo, rintracciandone l’eco, chiamando a raccolta tutti coloro che lo attraversarono.

Chi scrive, avendo anch’esso conosciuto tangenzialmente quel mondo e quell’umanità, ammette di esser stato fortemente scosso dalla visione del film: la facoltà di Filosofia dell’Università di Roma La Sapienza fu il serbatoio che fornì il panorama umano della vicenda raccontata. E chi proveniva da lì aveva cuore puro e un desiderio autentico, e magari anche ingenuo, di giungere a una Verità che gli concedesse una tregua, che gli fornisse qualche strumento in più per restare a galla nella palude asfittica del quotidiano.

Questi eroi misconosciuti e silenziosi hanno provato a “deterritorializzarsi”, cercando di smarcare, per dirla con il linguaggio deleuziano de L’Antiedipo, l’opprimente muro semiotico del capitale. Ma, è bene subito chiarirlo, non ce l’hanno fatta. Non sono riusciti, cioè, a trasfigurare l’ordine simbolico dominante, a dare corpo a una situazione atipica che venisse riconosciuta. Ma non è un biasimo questo. È un’impresa titanica portare a termine tale movimento e solo il fatto di averci provato è degno delle più accese lodi. Quegli anni e quell’attività “improduttiva” restano però indelebilmente impressi nell’animo di chi ne fu protagonista, di chi ebbe l’ardire di provare a non essere “sussunto”, “mangiato”, avrebbe detto Pier Paolo Pasolini. E chi può dire con certezza che essi abbiamo fallito? E se invece fosse vero il contrario? E se la vera sconfitta fosse stata piuttosto rassegnarsi, senza far alcuna resistenza, a diventare anonimi consumatori di merci, privati della propria soggettività, in nome del lavoro, della famiglia, dell’interesse generale di un paese che non ama i propri figli?

 

Luca Biscontini