Intervista sul mistero al grande Maestro del cinema italiano che torna all’horror.

Il  grande Maestro Pupi Avati  a breve , precisamente il 22 agosto, ci porterà ai confini del male con l’attesissima opera cinematografica “il signor diavolo”.
Il male nell’infanzia e nelle anime anche più semplici di questo parla l’ ultima attesissima fatica cinematografica del cineasta che forse  tra tanti miti dell’immaginario filmico mondiale, come Fellini, Almodovar , Hitchock o  Antonioni,  Avati  pare  aver  trattato  culturalmente sia dell’anima sia dell’occulto, indagando la purezza e il torbido contenuto nelle anime degli italiani.

Dietro questo Mostro sacro e la sua sterminata opera filmica è doveroso ricordare Antonio Avati; fratello , produttore insieme  alter ego e deus ex machina del mondo avatiano.
Il demoniaco è il luogo mentale, negli anni Cinquanta e in nord est,  descritto nel film  in maniera magistrale dal Maestro Pupi Avati.
Per il cineasta un ritorno attesissimo all’horror con “Il signor diavolo” proprio  Lui che con “avatiano”ha creato un sinonimo, un aggettivo che racchiude intimismo,provincialismo stralunato, ma anche mistero magia, follia e tanta poesia.
I fans del suo cinema dopo cinquant’anni di carriera pensano immediatamente a “La casa dalle finestre che ridono”.
Il film, tratto dall’omonimo romanzo scritto da Pupi Avati, è ambientato nel 1952, poco prima di un anno dall’alluvione del Polesine. L’opera narra l’istruttoria di un processo sull’omicidio di un adolescente, considerato dalla gente indemoniato. Un ispettore del Ministero  da Roma si sposterà nella magica e inquietante Venezia per fare luce sull’omicidio misterioso di cui è accusato un 14enne.
Il film sarà nei cinema dal 22 agosto.
Il Maestro ci dona una indimenticabile intervista, concessaci con generosità angelica, ci parla del Male  e  del Diavolo ma in maniera totalmente culturale con un fascino quasi mistico.

Lei ha giocato con tantissime maschere soprattutto nelle prime opere; il nano, il bruttone, il super  nevrotico, il pazzo del paese, la strega, il prete laido, l’ingenua, la bellona vampiresca. Nella prima parte della sua carriera pare talvolta attratto dalla bruttezza di certe maschere, ci spiega il perché?

Ripeto, dopo Otto e mezzo, sedotto dalla visione Felliniana, il cinema diventa per me  un mondo fantastico nutrito dalla vita contadina. In campagna non c’è nulla e pure il diverso può essere spettacolarizzato. La cosa speciale può essere il mostruoso  o il deforme, perché in quel contesto il demonio viene associato proprio al deforme. Come i down per esempio son stati guardati in campagna con diffidenza nel passato. Come un essere umano punito da Dio. Focalizzarsi sul grottesco per me, col cinema, voleva dire saldare il reale e l’immaginario. Ecco con Fellini e il suo altrove io  mi sono trovato, agli antipodi del neorealismo.

Torniamo al mondo dell’occulto, lei divide questa ricerca e questa curiosità con Fellini, suo conterraneo ma  si è domandato perche?

Fellini aveva delle radici da ricondurre al mondo contadino come me. In Amarcord descrive il mio mondo. Lui aveva una sacralità e pure un pudore verso la religione dei maschi della mia generazione. Uomini che aspettavano le madri fuori delle chiese, che poi erano le stesse chiese frequentate da mia madre. Tipico dei maschi della mia generazione il mai dichiararsi cattolici. Il senso dell’occulto è una diramazione di quello che è il rapporto con la morte. Per i contadini è come se la morte parlasse, come fosse una porzione della vita “guarda che se non fai il buono viene la nonna a tirarti i piedi…come una promessa che contiene la convinzione del passaggio del di là e del di qua, questo è al centro della cultura allomedicale e contadina, nel credo che dalla vita grama si possa essere risarciti nel dopo. Molti, senza illudersi, nel risarcimento non avrebbero sopportato una vita così grama. Il culto dei morti accessibile coi vivi mi è stato trasmesso; io ho un rapporto vero coi defunti. Le mie preghiere sono fatte di nomi, dicendo i nomi li tengo in vita. Ho una stanza di 150 immagini di piccoli ritratti  dove le persone che sono contate non ci sono più e io vado a salutarli. La stessa cosa in un cimitero in Umbria dove io vado spesso. L’occulto è come il volersi convincere che c’è qualcosa che va oltre, che non si chiude; qualcosa che contraddice il fisico riluttante a declinare. Il mio fisico non sa più fare delle cose ma  intellettualmente son il ragazzo di sedici anni a Bologna. Il percorso del mio fisico e il  viaggio della mia mente  non hanno coincidenza. La mi intellettualità non è in grado di  immaginare l’assenza del mio Io.  Ho gli anni per considerare che ad un certo punto  non potrei essere più me stesso, se lo comprendessi mi suiciderei. L’occulto diventa una dimostrazione di umiltà ammettendo di non sapere come è, non è una certezza della sopravvivenza del mio io, ma neanche  la fine del mio io. Vi è poca incidenza tra  la vita  fisica e quella intellettuale e qualche illusione la avverto legittima. Io dico che…non so….sarebbe presuntuoso asserire di poter saper di non esserci.

 

“L’arcano incantatore” è un film gioiello del genere fantastico; come l’ha concepito? Sondare l’insondabile vuol dire far crescere il pubblico?

Il film ha una valenza esoterica essendomi documentato sul mondo del 700. Questo film ha aspetti che mi sono stati presentati da altri. Io ho scritto senza razionalizzare. Questi aspetti lo fanno diventare importante forse troppo colto. Penso sia un film che indaghi l’altrove in modo affascinante.

“Zeder “altra opera incredibile sulle   radici etrusche”, che percorso ebbe  la sceneggiatura? 

Gli etruschi sono rimasti per le necropoli. Nacque dalla mia idea di lasciare una telecamera in una bara, e da una macchina da scrivere Elettra 22  su cui trovai le tracce di cose già scritte e il possessore dello scritto mi è parso per un attimo uno spirito. Un rapporto misterioso fra scrittura e coincidenze.

Hitchcock un suo illustre collega parla nelle sue sceneggiature di punizioni divine. I cattivi precipitano per Hitchcock. Nel suo cinema le cose si  rimettono nel bene secondo lei? La sceneggiatura può essere un percorso psicologico per l’attore?

Lo è quando vedi cose  grazie ad un Lavia ad un Capolicchio, vedi coi loro occhi. Io credo che gli attori per dare vanno rassicurati, De Sica diceva amati. Ma non è detto che  nelle mie trame non sempre vincano i buoni, no… non sempre …il  raccontare che il Diavolo vince, vuol dire far qualcosa che assomiglia alla verità della vita. A ottant’anni vedo che stanno vincendo i cattivi. Vincono quelli che disattendono e approfittano… ma è la realtà.

Grazie Maestro davvero
Grazie a te Antonello