Attore aitante, finanche poliedrico e impegnato, ma privo dell’inarrivabile gigionismo recitativo ad appannaggio del compianto padre Vittorio, ritenuto a buon diritto uno dei migliori interpreti della commedia all’italiana, Alessandro Gassman conferma con Il silenzio grande di possedere in cabina di regìa una tenuta stilistica, per così dire, ondivaga.
Cioè che va un po’ di qua e un po’ di là. Sulla medesima falsariga delle barche inclini a oscillare sulla superficie del mare. Senza mantenere una posizione netta. Decisa. Alla ricerca del verso giusto. Sul piano ora dello spettacolo popolare, ora della raffinata satira di costume.
Mentre nell’esordio (se escludiamo Di padre in figlio, co-diretto dal citato genitore) Razzabastarda l’uso espressionistico del bianco e nero gli era servito per scrivere con la luce una storia all’insegna dell’amore paterno, dell’ammaestramento plebeo, zingaro, dei sogni coltivati nell’età verde a dispetto degli invalidanti legami di sangue, con Il premio Alessandro Gassman aveva riletto i risvolti pubblici e privati dell’autorevole figura genitoriale sul piano ironico-favolistico. Affidando all’istrionico Gigi Proietti il ruolo del riverito ma labile capostipite intellettuale. Per poi disperdere lo spunto “malincomico” in modesti quadretti farseschi. Alieni alla celebrata cultura umanistica. Adesso il desiderio di trovare finalmente il verso lo spinge ad adottare stilemi che nondimeno suonano formalistici. Ed ergo incompatibili con i moniti filosofici padroneggiati dai maestri della fabbrica dei sogni in grado di congiungere la pregnanza contenutistica dell’argomento preso in esame alla maestria tecnica necessaria ad analizzare le debite dinamiche interiori. Che danno l’acqua della vita sia al cinema da camera sia a quello di pensiero. Costeggiati entrambi con l’adattamento per il grande schermo dell’omonima pièce teatrale di Maurizio De Giovanni incentrata sulla facondia dialogica, sul contrappunto dell’assenza di rumori, sulla comprensione, l’incomprensione, le luci, le ombre, la chimera dell’indipendenza critica e delle affinità elettive in seno alla famiglia. Massimiliano Gallo nei panni dell’immusonito padrone di casa Valerio, tagliato fuori dal mondo esterno nella venerata stanza dei libri, catalogati con cura certosina, scombinati dalla disincantata domestica, impersonata dalla bravissima Marina Confalone, fornisce un’ulteriore prova del duttile talento. Le parte migliori riguardano, infatti, i loro affiatati duetti. Autentici pezzi di bravura. Conformi alla miglior tradizione partenopea.
Che però scandagliano la sostanza degli stati d’animo attraverso l’inossidabile ironia, l’acume vernacolare, la forza significante delle parole piene. Lontane anni luce quindi dal silenzio chiamato in causa sin dal titolo come antidoto contro il caos delle cose. Esacerbato dalla decadenza sociale, dagli infecondi esuberi di aggettivi, dalle parole vuote e dai cuori aridi. Il loro confronto, che chiama in causa l’alta densità lessicale assorta nell’inane scienza in rapporto alla bassa densità lessicale riscattata dalla saggezza rustica, con l’esplicito senso d’appartenenza rappresentato dalla napoletanità nelle vesti del comune denominatore, contempla l’egemonia del cuore sul cervello. E, quindi, favorisce l’immediatezza espressiva, scevra dalle vane elucubrazioni mentali e dallo stucchevole sensibilismo di maniera, rispetto alla suggestione poetica dell’aura meditativa. Il successivo trapasso di tono, accompagnato dall’emblematica alterazione cromatica esibita dall’ammiccante fotografia, cede spazio all’indubbio zelo scenografico. Che cava le castagne dal fuoco al carattere del racconto. Impreziosito dall’arguto assemblaggio dei dettagli, dall’empatico ed evocativo rilievo degli interni, dall’atmosfera congiunta al mutamento di prospettiva. Nel quale il cervello ha tuttavia la meglio sul bistrattato cuore. Con gli espliciti richiami ai capolavori cecoviani, sfiorati comunque appena di striscio, e la prevedibile carrellata dei congiunti. Dall’insoddisfatta moglie in evidenza all’infingardo fratello in filigrana, dall’effeminato figlio alla nostalgica figlia. Avvezza ai teneri ricordi. Dispiegati da alcune risapute modalità esplicative che con il nobile e austero lavoro di sottrazione sotteso alla resa dei conti rimasta in sospeso c’entrano poco o niente.
L’avvilimento dell’uomo di lettere, incapace d’essere d’esempio alle proprie creature, l’attaccamento alla lettura, regina per antonomasia delle consolazioni, lo sdoppiamento tra sogno e realtà, subentrato dopo la minuzia descrittiva legata all’effigie della prestigiosa seppur negletta Villa Primic, vista da dentro, senza alcuno sbocco figurativo sul rapinoso panorama, tagliato fuori sull’esempio dell’insigne Eduardo De Filippo nel cult Il sindaco del Rione Sanità e dell’allievo Mario Martone nel recente remake, a dispetto del richiamo della geografia emozionale, compendiano sulla carta un motivo conduttore degno di nota. Invece, alla prova dei fatti, quando Alessandro Gassman si gioca la carta decisiva per inchiodare l’attenzione del pubblico e tenerlo sui carboni ardenti sino alla fine, sull’esempio di Alejandro Amenábar in The others, l’impalpabile colpo di scena non toglie affatto il respiro. Anzi. L’effetto soporifero, attribuibile alla penuria di trovate graffianti, all’assenza tanto della sintomatica psicopatologia, alla base degli horror cementati dall’inesorabile supremazia del cupio dissolvi sull’amor vitae, quanto dell’ancestrale insicurezza tramutata in valido coefficiente spettacolare dai tratti distintivi dei thriller canonici, chiude i battenti. Il silenzio grande, anziché trarre partito dagli opportuni modelli di partenza per evitare in prima battuta lo scoglio dell’invalidante noia di piombo e impreziosire poi il frutto sincero dell’autonoma fantasia con l’innesto surreale d’indizi che passano dal grottesco allo struggimento lirico, cade così nella meccanica giustapposizione della crudezza oggettiva con le chimere coltivate per lenire l’inarrestabile spasimo di fondo. La contrazione narrativa ivi connessa non riesce, neppure approssimativamente, a riassumere l’inesorabile solitudine del protagonista, il bisogno di affidare agli eloquenti silenzi il compito di snudare l’anima, il capogiro della sorpresa risolutiva. Di vere sorprese, per di più, all’attivo non se ne registra neanche l’alito: l’aria fritta prende il sopravvento. Con buona pace di un verso ancora da trovare.
Massimiliano Serriello
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