Il sol dell’avvenire: Nanni Moretti tira le somme e guarda al futuro

L’avvenire. Balbettarlo, provare a dirlo o, almeno, pensare alla possibilità di un futuro che non debba essere per forza di cose catastrofico, quanto, piuttosto, la sommatoria delle nostre azioni, una risultante a partire da cui si dipana una vibrante linea di fuga.

Tanto cinema, italiano e non, negli ultimi anni ha indugiato, anche in modo piuttosto compiaciuto, nel torbido, delineando scenari inquietanti, asfittici, senza speranza, sparando sulla croce rossa, colludendo con le angosce del pubblico a cui raccontava, furbescamente, ciò che voleva sentirsi dire e alimentando, in tal modo, un clima di diffuso disfattismo.

I grandi autori, invece, possiedono la rara capacità di gettare il cuore oltre l’ostacolo, proprio perché, dopo un lungo percorso di riflessione, fatto di dubbi e amare conclusioni, intuiscono, quasi istintivamente, il movimento interno della Storia, fatto di picchi e cadute, dissoluzioni e rinascite. E Nanni Moretti, che è sempre stato un regista illuminato, in grado di proporre letture penetranti della contemporaneità, ogni volta colta nel suo dispiegarsi su più piani, con Il sol dell’avvenire mette tra parantesi la cronaca (il conflitto in corso, i problemi climatici, la crisi energetica, le sempre più accentuate sperequazioni sociali), concentrandosi sull’uomo, le persone, l’amore, il cinema e la politica, disancorandoli dalla narrazione compulsiva attuale. Perché, in ultima analisi, si tratta di fare i conti con se stessi, giacché, come dice Giovanni, “Uno o due principi da seguire bisogna pur averli nella vita”. Nanni-Giovanni, regista, è in crisi con la moglie Paola (Margherita Buy), con cui da anni è anche coinvolto sul piano professionale, ma non riesce a capirne la ragione. Sentiamo le note malinconiche di Amore che vieni amore che vai di De Andrè, a cui però seguono, durante lo scorrere delle messa in scena, quelle di Voglio vederti danzare di Battiato, con tanto di giravolte e balletti di una troupe intera sul set. Come se, ancora una volta, e giustamente, Nanni ponesse l’accento sulla centralità della comunità, sull’essere-l’uno-con-l’altro, sul primato logico e ontologico che essa detiene rispetto alle singole soggettività.

Un tema questo che non ha mai smesso di affrontare, in particolare da Habemus papam fino a Tre piani (da molti incompreso e frettolosamente liquidato). Se poi Nanni rende un affettuoso omaggio a Krzysztof Kieślowski, che conosceva personalmente e apprezzava molto, raccontando di come, nel Decalogo, nell’episodio Non uccidere aveva rappresentato esemplarmente la violenza, quale gesto estremo e insopportabile, e non nella maniera spettacolare e affascinante proposta per intrattenere da tanto cinema contemporaneo, è la stella di Federico Fellini, di contro, a brillare più che mai. Perché Il sol dell’avvenire è anche, e soprattutto, una sentita meditazione sul cinema: e allora è bello vedere, mentre dirige il suo film sulla crisi del partito comunista, a seguito della “controrivoluzione” ungherese del ‘56, scorrere sullo schermo le immagini in bianco e nero de il finale de La dolce vita, con l’angioletto, interpretato dall’indimenticabile Valeria Ciangottini, che a fronte dell’incapacità di Marcello di sentire il suo richiamo lo saluta con un sorriso pieno di indulgenza e comprensione. Non tutto è perduto. E proprio come il Guido Anselmi di , il protagonista del suo film nel film, Ennio (Silvio Orlando), ritrova un insperato slancio che gli consente di rapportarsi alla propria lacerazione interiore non come a qualcosa in cui precipitare, piuttosto quale occasione per riposizionarsi gioiosamente nel mondo insieme agli altri.

E, allora, assistiamo a una felice torsione di sguardo che permette di smarcarsi da un ordine simbolico stantio e opprimente, attraverso una trasfigurazione che apre nuovi orizzonti di comprensione, tutti da percorrere. “La Storia non si fa con i se, ed io, invece, voglio farla proprio con i se”: con questa frase, che è una vera e propria dichiarazione programmatica, una sorta di manifesto per un pensiero ancora a-venire, si dice quanto il nostro vissuto, e quello di chi con noi l’ha condiviso, acquisisca un peso specifico, laddove, anche a fronte di una realtà deludente, la struttura etica di chi avrebbe voluto e si è adoperato per un diverso esito fa una vera differenza. Il sol dell’avvenire, quindi, in un certo senso, retro illumina tutto il cinema di Nanni Moretti, segnandone l’itinerario e facendone emergere il senso. Michele Apicella, contestatore guitto e guascone, che era evaporato da qualche anno (e Nanni sottolinea la distanza presa da esso, riproponendone la comicità con una recitazione innaturale e volutamente artificiosa), torna come un fantasma di un passato che necessitava di un’elaborazione risolutoria. Non c’era dubbio, infine, che il regista di Palombella rossa criticasse aspramente il diffondersi incontrollato delle varie piattaforme in rete che stanno riducendo il cinema alla stregua di una merce di consumo come qualsiasi altra, distruggendo la possibilità di ricomporre una piccola comunità che, per il tempo della durata di un film, si ritrova per vedere, sentire e provare insieme. La realtà che viviamo non è la realtà che volevamo. Ma noi, in virtù delle nostre scelte, pare rivendicare a viva voce Nanni, non siamo questa realtà. E così sia.

 

 

Luca Biscontini