Il viaggio del principe: i disegni animati per amore di semplicità

Eletto a buon diritto da oltre quarant’anni ad autore sensibile ed estroso dei migliori film d’animazione, in grado di aprire gli spazi fantastici del carattere d’ingegno creativo per trascinare anche gli spettatori adulti nell’affascinante ricerca dell’alterità impreziosita dal fascino dell’avventura, riscontrabile sin dall’applaudita opera prima La traversée de l’Atlantique à la rame, l’eclettico regista francese Jean-François Laguionie per certi aspetti batte sullo stesso chiodo.

Consapevole che, anteponendo gli elementi segnaletici della sua cifra stilistica all’attitudine ad apporre qualche variante meritevole d’attenzione, se non a mutare coraggiosamente segno, può prendere al laccio grandi e piccini. Conquistati dall’immediatezza espressiva della voce fuori campo, dalle carezzevoli strizzate d’occhio connesse all’indefessa formula del diario di bordo, dall’avvolgente gamma cromatica dei disegni a matita e acquarelli eseguiti dall’alacre Laguionie.

Persuaso a dirigere l’ultima fatica, Il viaggio del principe, in tandem insieme al talentuoso allievo Xavier Picard per unire le forze ed emanare l’aura fiabesca conforme all’ordine naturale delle cose. Contemplato dalla garbata linea compositiva, dai curiosi toni prospettici, dall’idoneo spazio scenico alieno alle infeconde civetterie sofistiche. L’esplicito richiamo, sin dall’incipit, agli appassionanti romanzi di Jules Verne ed Emilio Salgari, numi tutelari pure del Re Mida di Hollywood, Steven Spielberg, mette subito le carte in tavola. La padronanza del mestiere, che riesce ad appaiare le doti tecniche dell’artigiano ai colpi d’ala dell’artista coi fiocchi, assicura un rimarchevole appeal all’approdo del canuto principe, alto, robusto, distinto, in una sorta di Nuovo Mondo dove i presunti selvaggi, gli stranieri e sostanzialmente tutte le creature estranee all’omologazione di massa sono viste con boriosa sfiducia. Le modalità esplicative dell’onnipresente voice over, dispiegate per amore di semplicità, risparmiando in tal modo al pubblico dai gusti semplici insalubri dispendi di fosforo, sviliscono tuttavia il fenomenale slancio contemplativo della scrittura per immagini. Alla base dei capolavori realizzati dall’impareggiabile maestro giapponese Hayao Miyazaki con le eloquenti ed emblematiche tavolozze. L’interazione tra parole extradiegetiche ed effigi grafiche, sebbene inappuntabile sul versante narrativo, giacché forgia la giusta suspense prima che la farfalla esca dal bozzolo, finisce per riservare, a lungo andare, poche sorprese.

L’idea di riproporre le scimmie antropomorfiche già mostrate in Le château des singes, per esibire attraverso la figura del sovrano rinchiuso nel museo dell’eccentrico professor Abervrach l’equa egemonia dell’epoca rinascimentale sul cinico progresso imperante agli albori dello scorso secolo, risulta infatti riluttante a risolvere gli imprevisti di rito in coefficienti spettacolari. L’amicizia col dodicenne Tom, ammaliato dal linguaggio degli animali dell’intero creato, ed ergo alieno a qualunque pregiudizio, l’impaccio dell’antropologo, ansioso di riconquistare la stima dell’arrogante Accademia di Scienze Moderne, l’affabilità dell’aggraziata assistente Nelly, il severo contegno della rigorosa Elizabeth, che vince lo sconforto di dirigere il laboratorio in esilio curando con inappuntabile zelo le amate piante, rientrano nell’ordinaria amministrazione. La fuga notturna dell’anziano blasonato in trasferta e del premuroso preadolescente, allergico alle regole impostegli dall’autocrate collegio, alza invece il tiro: lo sfondo della metropoli, l’onirico timbro congiunto alla compostezza della gente, i mezzi di trasporto, l’incantesimo del buio in sala, con gli sghignazzi del primate più sveglio ed evoluto preferiti ai silenziosi brividi suscitati da King Kong, illuminano la storia. Da par suo Picard rimarca l’inettitudine della propagandata superiorità scientifica ed etica. Colpevole di chiudere in gabbia il principe.

Dapprincipio sedotto dalla diversità dell’universo spalancatogli dall’amico in erba al pari di Alice nel paese delle meraviglie. La co-regia, concorde nel puntare il dito contro l’ignoranza dei falsi dotti, nello scegliere l’arguto lavoro di sottrazione, al posto dell’enfasi dell’accumulo, per elaborare le vibranti corde ottiche, legate ad alcuni scorci caricaturali e agli espliciti echi felliniani, rifugge, al dunque, da qualsivoglia intellettualismo. La crescita dell’emozione, garantita dal fuggifuggi, seppur prevedibile, nella foresta, che sancisce l’incontro nell’ebbrezza degli alberi millenari con l’avveduta civiltà contraria alla compiaciuta ferocia dei macchiettistici accademici da strapazzo, basta e avanza per garantire a Il viaggio del principe l’altezza poetica necessaria ad andare oltre le mire metaforiche, lo scoppiettio di trovate singolari ed esilaranti, i risvolti orrorifici. L’intensificazione del buon cuore mette quindi le ali all’happy end. E l’ascesa conclusiva compensa appieno l’assenza di angolazioni colte in chiave thrilling. Il piacere d’inventare, traendo partito dal valore dell’ironia e della bonomia, trasporta lo stesso ogni cinefilo in un clima d’intesa, d’affetto, di sano riscatto. Che spicca il volo.

 

 

Massimiliano Serriello