Non poteva certo mancare Jean-Luc Godard nel lodevole lavoro di riscoperta in alta definizione che CG Entertainment (www.cgtv.it) sta effettuando nei confronti del cinema d’autore. Puntualmente, dunque, dopo Ôshima, Borowczyk, Bresson e Resnais, ecco resi disponibili su supporto blu-ray due importantissimi titoli appartenenti alla filmografia del maestro della Nouvelle Vague. Per la precisione, Il maschio e la femmina e Due o tre cose che so di lei, entrambi in versione restaurata e corredati di piccola sezione extra.
Il maschio e la femmina (1966)

Chi non ricorda il piccolo Jean-Pierre Léaud protagonista de I 400 colpi, capolavoro di François Truffaut? Ormai cresciuto e sotto la regia di Godard interpreta il giovane Paul, reduce dal servizio militare e insoddisfatto del suo lavoro di magazziniere. Giovane che trascorre molto tempo presso un bistrot dove scrive un diario poetico-politico e dove incontra Madeleine, ovvero Chantal Goya, archivista per un giornale. Archivista il cui sogno è però quello di diventare una cantante e della quale Paul si invaghisce, cominciando di conseguenza a corteggiarla. Oltre che ad interrogarla continuamente su diversi argomenti, mentre lei evita di esporsi e di parlare delle uniche due cose che interessano ad entrambi: l’amore e il sesso. Un pretesto che basta all’autore di Fino all’ultimo respiro per raccontare in fotogrammi la condizione dei giovani nella Francia di metà anni Sessanta. E lo fa basandosi molto liberamente sui racconti di Guy de Maupassant La donna di Paul e Il cenno. Man mano che vengono tirati in ballo anche Robert alias Michel Debord, sindacalista militante amico del protagonista, e due coinquiline di Madeleine. Élisabeth e Cathérine, rispettivamente con i volti di Marlène Jobert e Catherine-Isabelle Duport. Ma, non accreditate, vi sono anche Brigitte Bardot e Françoise Hardy nel cast della oltre ora e quaranta di visione girata in bianco e nero. Una oltre ora e quaranta di visione incentrata molto sulle performance attoriali e divisa in capitoli. Una oltre ora e quaranta di visione che sfoggia, come di consueto, tutto l’anticonformismo godardiano di narrazione da schermo. Dal voice over all’uso di didascalie, senza dimenticare gli immancabili bruschi stacchi di montaggio. Per non parlare dei lunghi primi piani su uno dei personaggi mentre ascoltiamo fuori campo l’altro che parla. Perché, sebbene sia una società dei consumi in rapida trasformazione a fare da sfondo, è sempre il linguaggio della pellicola ad interessare principalmente a Godard. Come testimonia ulteriormente anche la sequenza in cui Paul protesta all’interno di una sala cinematografica per il formato di proiezione sbagliato. Il resto lo fanno una colonna sonora costituita da canzoncine pop e un dialogo decisamente serrato atto a toccare diversi argomenti. Che siano essi la guerra del Vietnam, gli anticoncezionali, il capitalismo, le star della musica o, addirittura, gli attacchi verbali agli americani. Con il trailer e una conversazione di venticinque minuti riguardante il film quali contenuti speciali.
Due o tre cose che so di lei (1967)

Nel sistema collettivistico l’uomo non smentisce la sua natura? Abolita la proprietà, basta produrre poco per diventare ladri? A qualunque età è un dovere preciso sentire l’ebrezza della vita? Ma cosa è l’ebrezza della vita? Sebbene il titolo possa spingere erroneamente a pensare ad una storia d’amore, quella “lei” presente nel titolo ha in realtà una doppia valenza. Da un lato si riferisce alla protagonista Juliette, giovane madre di famiglia che la macchina da presa segue nel corso di una giornata. Dall’altro (e soprattutto) alla Parigi neocapitalista sommersa dal consumismo. Ma anche stavolta il buon Jean-Luc provvede a sfoggiare il proprio anticonformismo nel rendere lo spettatore consapevole del fatto che ciò che sta guardando sia finzione. Non a caso, prima ancora di precisare chi è Juliette la presenta come Marina Vlady, cioè l’attrice che la incarna. Dunque, in una capitale francese sospesa tra modernità e alienazione si intrecciano frammenti della sua vita. Impegnata ad esplorare i confini tra il desiderio e la routine, l’amore e, appunto, il consumo. In mezzo a sguardi rubati, confessioni sussurrate e una quotidianità che si tinge di sensualità. E attorno tutto il vuoto del mondo contemporaneo, rafforzato anche dal bianco presente nella maggior parte delle inquadrature. Un bianco che sembra metaforicamente rappresentare proprio l’incoscienza di chi consuma in continuazione senza rendersene conto. In quanto Due o tre cose che so di lei intende essere una feroce critica e, al contempo, una riflessione poetica e provocatoria sulla società consumista. Una società in cui chi ne fa parte non esita a prostituirsi per poter acquistare i vari beni. Proprio come fa la stessa Juliette nella oltre ora e venti di visione costruita quasi come se si trattasse di un documentario. Una voce fuori campo intervista infatti i vari soggetti in scena che, guardando verso la macchina da presa, forniscono le loro risposte. Instaurando di conseguenza una sorta di dialogo diretto con lo spettatore. Non senza una certa influenza brechtiana, in un susseguirsi di pianosequenze le cui immagini guardano chiaramente alla Pop art di Andy Warhol. Compresa quella fascinosamente simbolica che ritrae scatole di diversi prodotti disposte su un prato come a formare una città. Al servizio di un miscuglio di finzione, verità e inchiesta destinato a suggerire che un fantasma della realtà è ciò che rimane tra realtà e pensiero. Con tredici minuti di conversazione sul lungometraggio nel comparto relativo al materiale extra.
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