Con la stessa naturalezza dello zoom di una mappa computerizzata, l’artista albanese Besnik riesce a farci vedere il quadro globale dei cambiamenti planetari che stiamo vivendo e – allo stesso tempo – focalizzarsi sulle vite degli uomini per raccontare la fragile tenerezza della sua esistenza. Raccontare l’universale della storia attraverso il particolare dei destini individuali, riportare ciò che è frammentario, l’esperienza del singolo, alla compiuta totalità dell’umano. Questa è la realtà sconvolgente, capace di dare un senso a questi tempi di disorientamento e follia.
Besnik è nato in Albania, in un giorno estivo, quando la luce del sole fa capolino e il mondo si risveglia. Da bambino iniziò a convincersi che fuori da quei confini vi era un altro mondo, pieno di possibilità per trovare lavoro, risparmiare e fare soldi. Ma si rendeva conto che era ancora troppo piccolo per partire per l’Italia, sua meta. Attraverso peripezie, difficoltà e crisi, riesce a superare i momenti più difficili e a superarlo, quel confine, giungendo così alla meta agognata dove trova anche lavoro.
Besnik ama l’Italia, questo paese, dove ha sempre vissuto in una casa con riscaldamento e doccia calda, ha avuto sempre cibo buono a sufficienza per lui e la sua famiglia, e ha quello che serve per vivere una vita serena.
Intervista
Ilaria – Essere albanese in Italia. Il valore dell’accoglienza.
Besnik – Il 7 marzo del 1991 l’Italia scoprì di essere considerata “L’america” del popolo albanese. Da noi stava crollando il regime comunista di Enver Hoxha, che aveva condannato il Paese all’isolamento e alla povertà assoluta.
Spinti dalla promessa di benessere dei canali televisivi italiani, ricevuti anche dall’altra sponda dell’Adriatico, furono in 25mila a tentarne la traversata. Partirono soprattutto dalle campagne, dove viveva il 70% della popolazione, utilizzando navi mercantili e imbarcazioni di fortuna che raggiungevano il porto di Brindisi, cariche di uomini, donne e bambini affamati. La città, che non era preparata ad accogliere una folla di questo tipo, si ritrovò in piena emergenza umanitaria. Il sesto governo Andreotti tentennò per cinque giorni prima di intervenire decidendo di aiutare i boat people: alcuni vennero trasferiti in Sicilia, altri in Basilicata, altri ancora in abitazioni private e centri sociali pugliesi. L’ondata migratoria di marzo, accompagnata da una forte empatia da parte degli italiani, si replicò a distanza di cinque mesi esatti.
Ilaria – Tu eri tra loro?
Besnik – No… Ma la povertà assoluta che ho sentito sulla mia pelle mi ha spinto a voler voltare pagina. Molti miei fratelli sono tuttora in Albania. 5 anni fa sono morti i nostri genitori. Altri miei consanguinei sono in Italia, chi al nord e chi al sud dello stivale. Io ho messo famiglia in Sicilia. Ho tre figlie bellissime che amo follemente.
Ilaria – Ti senti sospeso tra due mondi?
Besnik – Sono abitato da moltitudini di mondi, a cui aderisco e non intendo, né ho mai voluto, “targetizzarmi” granché. La mia posizione è quella di un uomo con una storia personale e collettiva ben chiara alle spalle. Sono migrante e figlio di migranti, che vive in un contesto di adozione, utilizzando anche una lingua di adozione. Collettivamente faccio parte di un popolo – quello albanese – che negli anni Novanta, ha attraversato l’Adriatico su navi di fortuna, non molto diverse da quelle che ancora oggi, purtroppo, riempiono le pagine di cronaca.
Ilaria – Nonostante continue crisi, c’è chi rialza la testa con orgoglio, inseguendo ostinatamente i propri sogni e riportando risultati personali vincenti contro ogni previsione. Oggi sei famoso in tutto il mondo grazie alle tue creazioni, ti sei preso la tua rivincita.
Besnik – L’esistenza mi ha ripagato di tutta la sofferenza iniziale. Oggi mi sento un uomo molto fortunato. Sono la prova di come si possa fare buon viso al cattivo gioco della vita, quando le cose non vogliono andare nel verso giusto e tutto sembra perduto. E di come si possa vivere facendo di una sventura un’opportunità di rinascita e crescita. E pensare che fin da piccolo consumavo interi blocchi da disegno, con matite, pennarelli e tempere, copiando i disegni dei miei fratelli più grandi di me. La passione per l’arte e i colori mi hanno salvato la vita.
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