Enrica Perucchietti è una giornalista, scrittrice ed editor torinese, laureata con lode in Filosofia. Ha ricoperto il ruolo di caporedattrice per il Gruppo Editoriale Uno e One Books, e attualmente collabora con Visione Editore e L’Indipendente. È autrice di numerosi saggi, tra cui “La Censura nelle ‘Democrazie’ del XXI Secolo”, che esplora temi come la criminalizzazione del dissenso e l’inquisizione digitale.
Il suo libro “La Censura nelle ‘Democrazie’ del XXI Secolo” analizza come, nell’era delle guerre ibride, i giganti del web, supportati dai media di massa e dai fact-checkers, siano diventati strumenti del potere per creare un’informazione certificata. Questo sistema legittima solo le narrazioni conformi alla linea ufficiale, mentre le forme di pensiero critico vengono etichettate come “complottismo” o disinformazione, rischiando di essere perseguite come “psicoreati” di memoria orwelliana.
Cosa ti ha spinto a scrivere La Censura nelle “Democrazie” del XXI Secolo? Qual è stata la scintilla che ha dato il via a questo progetto?
È un argomento che ho già trattato in passato: negli ultimi dieci anni ho affrontato in diversi libri, articoli, video e conferenze il tema delle fake news, mostrando come la battaglia contro la disinformazione stia portando alla creazione di una informazione certificata (le notizie col bollino) e dall’altra a legittimare la censura di opinioni divergenti e anche di notizie vere ma scomode per il Sistema (come dimostrano diverse inchieste, dai Twitter Files ai Facebook Files). Ritengo che sia un tema stringente, perché è in gioco la libertà di espressione e di informazione.
Come definiresti la censura nelle democrazie contemporanee rispetto a quella applicata nei regimi totalitari del passato?
È più sotterranea, strisciante, fintamente buonista, sempre paternalistica. Finge di interessarsi al bene comune, ma di fatto criminalizza e patologizza il dissenso. Non prescrive solo che cosa non si può dire e pensare, ma è anche apportatrice di nuove regole di condotta. Negli ultimi anni, si è costituito un “nuovo ordine morale” votato al “giusto”, che ha finito con invadere ogni ambito della società e, come osserva il filosofo e saggista Alain de Benoist, che ha curato una delle due prefazioni al mio libro, «oggi le censure vogliono avere una buona coscienza, la qual cosa non accadeva necessariamente una volta. Quelli che si danno da fare per marginalizzare, ostracizzare, ridurre al silenzio, hanno la sensazione di stare dalla parte del Bene».
La moderna censura ha comunque molti punti in comune con il passato, al punto che possiamo parlare di una forma di “Inquisizione digitale” che, invece di perseguitare gli eretici, criminalizza i divergenti, ma la modalità è la medesima, ci troviamo di nuovo di fronte a una forma di caccia alle streghe o di maccartismo 2.0. Negli ultimi anni i casi di silenziamento delle voci critiche si sono moltiplicati, rendendo evidente come il Sistema si avvalga della censura per inibire il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero e persino di fare informazione.
Nel libro descrivi i giganti del web come “braccio armato del Potere”. Puoi approfondire questa affermazione e spiegare il loro ruolo nel limitare il pensiero critico?
I giganti del web sono aziende private che si arrogano il diritto di limitare la libertà di espressione, violando quelli che sono dei diritti costituzionali: le piattaforme social, sebbene appartengano a multinazionali straniere, sono diventate con il nuovo millennio un’agorà, un luogo di confronto e di dibattito pubblico in cui si forma e si confronta l’opinione pubblica e la discussione dei cittadini. YouTube, Facebook, Google stanno diventando sempre più potenti, trasformando spesso le loro azioni in atti autoritari nei confronti degli utenti, con conseguenze che pesano sul dibattito di una società democratica, andando a ledere lo stesso diritto di informazione.
Qual è la tua opinione sul fenomeno dei fact-checkers? Pensi che il loro lavoro sia realmente imparziale o che, al contrario, serva a rafforzare un’unica narrazione ufficiale?
Il fact-checking è tutt’altro che “obiettivo” e viene largamente usato come uno strumento di manipolazione e di sabotaggio delle opinioni divergenti, per sostenere certe narrazioni a scapito di altre, fino a limitare pesantemente la libertà di espressione e di informazione.
Il fact-checking è stato presentato come la soluzione primaria per affrontare la disinformazione e gli “esperti” che sono stati man mano reclutati dalle istituzioni e dalle testate sono stati investiti di un modello di amministrazione delle notizie pericolosissimo. Spesso veniva conferito uno status privilegiato a individui che presentavano come “abilità a scovare bufale” le loro banali prese di posizione, cioè, prese di posizione da persona comune con un fardello di pregiudizi comodissimo ai Padroni delle idee.
Siti di verifica dei fatti, come Facta in Italia, Snopes negli Stati Uniti, e piattaforme globali come l’International Fact-checking Network (IFCN), hanno visto la luce ufficialmente per cercare di arginare il flusso di informazioni ingannevoli. Fiancheggiati da politici e pescecani della finanza, questi servizi si sono auto-illustrati come campioni della democrazia dediti a verificare la veridicità delle affermazioni che circolano sui media e sui social network, etichettando ciò che è vero e ciò che non lo è.
Tuttavia, basta controllare chi finanzia e sostiene economicamente questi progetti. Dietro la facciata imbiancata dei sepolcri che ostentano la recita sussiegosa dell’imparzialità, si celano conflitti di interesse che toccano in profondità i risultati delle verifiche.
In particolare, essendo in larga misura finanziato da grandi multinazionali, da strutture di intelligence, da tutte le “porte girevoli” delle dirigenze militari occidentali, governi o enti con interessi politici di cui parlo ampiamente nel libro, il fact-checking viene manipolato per sostenere agende specifiche, screditare fonti alternative e limitare il pluralismo dell’informazione.
In che modo, secondo te, il dissenso viene criminalizzato nelle democrazie moderne? Quali sono gli strumenti utilizzati per soffocare le voci critiche?
Dietro la maschera del politicamente corretto si nasconde una macchina della censura che porta a fenomeni quali la criminalizzazione del dissenso, il boicottaggio del pensiero divergente e la cancel culture. Il politicamente corretto ha portato ad accettare come normali le pratiche di silenziamento dei divergenti. Facendo leva sui siti di fact-checking, questo sistema ha cercato di monopolizzare la verità, presentando come legittime solo le narrazioni conformi alla linea ufficiale, mentre tutte le forme di dissenso sono state etichettate come “complottismo” o fake news. Di conseguenza, si è sviluppato un conformismo di massa, incentivato da una paura generalizzata e da un indottrinamento mediatico costante.
Si vorrebbe, infatti, che le persone facessero esclusivo riferimento ai media di massa, diffidando delle notizie alternative, abdicando peraltro alla propria coscienza critica, finendo così per bersi passivamente tutto ciò che radio, TV e giornali diramano anche quanto le notizie trasmesse siano in netto contrasto con la realtà o con il semplice buonsenso. Si vuole, cioè, che il giornalismo diventi dogmatico e che l’atteggiamento dei fruitori sia di totale accondiscendenza nei suoi riguardi. E, soprattutto, si vuole imporre una visione della realtà che scalzi la realtà stessa. Non c’è spazio per l’ermeneutica del sospetto, anzi, il dubbio viene additato come il segnale di uno squilibrio paranoico e la coscienza critica diventa sinonimo di “complottismo”, per evitare, come spiegava lo storico della filosofia e antropologo francese Jean-Pierre Vernant, che «le argomentazioni entrino in gioco». Chi osa cedere al dubbio o dissentire finisce per essere perseguitato, ridicolizzato, silenziato, persino trattato alla stregua di un criminale o di un pazzo, in modo che lo scetticismo nei confronti del pensiero unico non rischi di infettare altri membri della società.
Cosa intendi con il termine “inquisizione digitale”? Quali conseguenze pensi che abbia sulla libertà di espressione, specialmente nell’era dei social media?
Chi dissente, chi si occupa di informazione indipendente è visto dai Padroni delle idee e dai loro scagnozzi come un moderno eretico. Il termine “eresia”, fuori dall’ambito religioso, infatti, indica un’idea o affermazione contraria all’opinione comunemente accettata. Contraria all’opinione accettata non significa errata, falsa. Un’opinione alternativa, indipendente, non è necessariamente una “fake news”. Definendo moralmente e spiritualmente “sbagliate” le forme di critica, analisi o dissenso rispetto al nuovo catechismo del pensiero unico e ai suoi dettami, il culto impedisce ogni confronto sulla propria validità e proibisce ai “fedeli” di indulgere in riflessioni senza cadere in “eresia”. Chiunque esprima dissenso e si macchi pertanto di eresia, viene etichettato come un “nemico assoluto” in un altrettanto moderna forma di manicheismo, che comporta la demonizzazione, la persecuzione e l’esclusione degli eretici dal gruppo (e, quindi, la loro “morte sociale”). Il linciaggio del dissenso avviene rispolverando a sproposito terminologie del tutto prive di attinenza logica, come quella di “negazionista”, o etichette denigratorie come quella di “complottista”.
Secondo te, i social media rappresentano più una minaccia o un’opportunità per la libertà di espressione? Quali sono i loro principali effetti sulla diffusione delle informazioni?
Rappresentano una minaccia per il Sistema e i vecchi media e una opportunità per la libertà di espressione se non fossero, come sono, sottoposti a controllo, sorveglianza e a censura, in base alle pressioni di governi e di società di intelligence (come dimostrano i Twitter Files).
Che ruolo giocano l’ideologia woke e la cancel culture nella censura moderna? Ritieni che abbiano contribuito a limitare il dibattito pubblico?
Certo, oggi la cancel culture e l’ideologia woke sono finite per ingaggiare una guerra culturale volta a estromettere dalla società tutto ciò che è “impuro” e, come ci insegna il passato, nessuno è mai abbastanza “puro” per un inquisitore, che sposa ciecamente la missione di livellare le menti, uniformare i costumi e distruggere i nemici: la carneficina ideologica finisce così per cancellare tutto e reprimere le voci divergenti, soffocando la libertà di espressione e mortificando l’espressione artistica.
La buona notizia è che la gente si è stufata di questo puritanesimo culturale e sta rigettando la ferocia del woke e della cancel culture, in nome della libertà. Come i Puritani del passato, i fautori dell’ideologia woke non si concentrano tanto su soluzioni pratiche per ridurre le discriminazioni, quanto piuttosto su una costante caccia ai colpevoli. La loro visione del mondo si basa su una rigida gerarchia di vittime e oppressori, in cui ogni individuo è definito in base al proprio gruppo di appartenenza. Questo approccio, che ha promosso politiche come la censura e la “discriminazione razziale positiva”, ha creato un ambiente soffocante e divisivo, dove chiunque dissenta rischia di essere “cancellato”.
Quali strategie pensi siano necessarie per contrastare questa nuova forma di censura e garantire una reale libertà di pensiero e di parola?
Nel libro dedico un intero capitolo ad analizzare diverse proposte pratiche e provvedimenti per tutelare la libertà di opinione, con l’auspicio che si possa instaurare un dialogo costruttivo e trovare un modo per resistere a questa moderna Inquisizione digitale.
Stai lavorando a nuovi progetti o libri che approfondiscono ulteriormente queste tematiche? Cosa possiamo aspettarci da te nei prossimi mesi?
Come spiegavo all’inizio, è un tema che mi sta molto a cuore e che sicuramente continuerò ad approfondire. Se vogliamo che la nostra voce conti qualcosa, dobbiamo unirci in una lotta comune contro la censura, contro l’omologazione, contro la falsificazione della verità, contro il colonialismo dei dati e contro la sorveglianza tecnologica.
Cosa vorresti dire a chi ti segue e a chi leggerà questa intervista su Mondospettacolo?
Come sempre, il mio invito è a esprimere e a coltivare la propria coscienza critica, a testimoniare nei fatti le proprie idee, senza paura. Il mio è un invito ad approfondire la questione della censura e della libertà di opinione e a meditare una risposta corale a un problema complesso. Il mio appello finale è anche un invito alla resistenza. Una resistenza che non sia di pancia. Che sia, invece, matura, astuta, strategica ed equilibrata a difesa della nostra libertà. La lotta contro la censura e per la libertà di parola sui social non è una battaglia che riguarda i magnati della tecnologia. È una battaglia per il futuro stesso di Internet, per un cyberspazio dove ognuno di noi possa esprimersi liberamente, senza il timore di essere sorvegliato o silenziato.
È una battaglia volta a preservare l’integrità del concetto stesso di libertà nell’era digitale. La libertà di parola è un diritto inalienabile, che non deve essere compromesso per il capriccio di chi vuole esercitare un controllo totalitario sul flusso di informazioni.
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