Autore vicentino al debutto con “L’odore dell’aria”, Tecchio racconta un mondo nato senza schemi, dove la magia ha limiti e la verità arriva tardi. Dietro l’epica fantasy, una riflessione sulle emozioni e sulla scrittura come gesto inevitabile.

Michele, a tuo parere, “L’odore dell’aria” evoca suggestioni particolari?
Sì, tutto il romanzo è concepito con l’idea di evocare suggestioni e provocare emozioni, attraverso immagini, ambientazioni e odori, appunto. Il regno di Eyrtor in particolare, ricorda un ambiente incontaminato e lussureggiante. Il lettore si ritroverà nelle sue foreste, con il rumore delle foglie che scricchiolano sotto i piedi, l’odore di resina nelle narici e la sensazione della corteccia ruvida sotto le dita. Avvertirà la pace di quel luogo e si innamorerà dei suoi grandi alberi.
Molte scene traggono ispirazione dalla realtà? Vorresti illustrarle al pubblico?
Si tratta di piccoli episodi realmente accaduti e adattati alla storia. Me ne vengono in mente un paio: Da ragazzo, per sbaglio, ho ferito un mio caro amico alla mano mentre eravamo alla fermata dell’autobus. Niente di grave per fortuna ma ho sempre provato rimorso per quel fatto. Ho inserito nel romanzo una scena in cui Adlard mostra di avere una ferita alla mano provocata dal suo amico Howell. La cosa divertente è che io mi ero dimenticato di aver aggiunto quella scena ma il mio amico l’ha riconosciuta leggendo il romanzo.
La seconda scena racconta il primo bacio fra Tabitha e Howell. Si tratta del vero primo bacio fra me e la mia compagna, ed è avvenuto realmente in riva a un lago, vicino ad un salice. Loro sono sopra un elegante e pittoresco masso coperto di muschio, noi eravamo su un meno elegante blocco di cemento ma la poesia del momento era la stessa.
Cosa ti affascina del fantasy e della fantascienza?
Domanda difficile. Probabilmente in queste storie trovo qualcosa che manca nella realtà, o che fatico a riconoscere nella realtà. Banalizzando molto si potrebbe definire un “destino”.
Hai qualche idea per un nuovo romanzo?
Sì, ho già buttato giù qualche pagina di un seguito che vorrei intitolare “Il peso del tempo.”
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