Io, lui, lei e l’asino: il ritorno di Caroline Vignal

Sembrava aver tirato i remi in barca. Delusa di non essere riuscita a governare i vari fattori espressivi in cabina di regìa. Invece, a vent’anni di distanza dal film coming age Girlfriends (Les autres filles), svilito dalla scelta radicale di congiungere le tecniche di straniamento all’immediatezza conforme a Il tempo delle mele, l’alacre sceneggiatrice Caroline Vignal torna dietro la macchina da presa con Io, lui, lei e l’asino.

Mutando segno. Per esibire il punto di convergenza tra introversione ed estroversione, accostabile alla mutualità d’immaginazione e immagine, attraverso l’egemonia del cuore sui cerebralismi. Che individuano negli aggiustamenti del quadro focale, nei compiaciuti zoom in avanti attinti a quelli, ben più necessari, dell’estroso Lars von Trier, in ottiche teoricamente fuori dall’ordinario, ma all’atto pratico arcinote, uno scaltro trucco per rendere straordinaria l’ennesima tiritera sulle palpitazioni dell’adolescenza.

A ispirarla adesso è l’esperienza maturata in veste di turista, insieme alla sua famiglia, nel parco nazionale delle Cevenne. Il passaggio dalla superficialità di vedere all’idonea profondità di guardare con attenzione ed entusiasmo, con sorpresa ed empatia, senza inserire le larghe pause dell’aura contemplativa nell’inane speranza di ricavarne un valore aggiunto all’autentico processo d’identificazione connesso alla geografia emozionale, veicola lo sguardo degli spettatori in territori alieni all’enfasi di maniera. Scoprendoli palmo a palmo. Coerentemente con la compattezza della trama. Stilata nel rispetto degli elementi ambientali, nell’intarsio d’interni indicativi ed esterni panteisti, nella pienezza poetica delle atmosfere venutesi a creare, di volta in volta, sulla scorta della carezzevole parentesi dell’avventura. Da una parte, quando la spigliata maestra elementare Antoniette, innamorata del padre di una sua alunna, decide di raggiungerlo compiendo l’arduo cammino di Stevenson con l’asino Patrick come unica compagnia prima di riunirsi al resto della comitiva, l’assunto richiama alla mente l’indimenticabile bonomia, la fragranza, l’azzeccata spontaneità di tratto della commedia statunitense Scappo dalla città – La vita, l’amore e le vacche.

Dall’altra emergono i requisiti diegetici d’ogni luogo dell’itinerario, con un procedere fortuito analogo al road movie meditabondo Cinque pezzi facili di Bob Rafelson, e le argute situazioni psicologiche attinte ai racconti morali del guru Éric Rohmer. Tuttavia, al di là di qualsivoglia prestito stilistico, assorbito comunque dall’originalità che presiede alla feconda vena d’ironia e al controcanto dei semitoni malinconici, ad andare oltre la soglia del mero mestiere, avvezzo a sottrarre alla vista il calo d’idee coi plagi camuffati da omaggi, provvede l’intelligente dinamizzazione degli eventi. La cui carica narrativa consta d’intimi tiremmolla, col fedifrago Vladimir intento a tacere la tresca all’amareggiata moglie e alla perspicace figlioletta, d’insistenze, di fraintendimenti, d’intendimenti, di tenacia, di sconcerti e fulgide rifioriture. La disinibita ed eclettica colonna sonora cadenza così le ardue ma rigeneranti scampagnate nel comune di Chasseradès, nei parchi attigui a Le Pont-de-Montvert, nelle floride distese, negli accavallamenti pietrosi, nei villaggi arroccati dell’Occitania. Il ricorso simultaneo ad alcuni campi lunghi in chiave western, all’intertestualità del documentario lirico, ai modi frizzanti dei pamphlet farseschi, alla goffaggine romantica degli apologhi brillanti sull’incomprensione sentimentale mette troppa carne al fuoco.

La levità gentile però dei raccordi di montaggio, degli scorci soavi, dell’ombra di rimorso, frammista ai soprassalti di stizza e alle smorfie in barba al perdurare dell’ipocrisia, ridona equilibrio alla garbata pittura introspettiva. Composta d’inopinate figure di fianco. Fedeli ora al rito del celere biasimo ora all’incanto fiabesco degli angeli custodi. Che svelano, da copione, cosa significa davvero camminare sulle orme dello scrittore Robert Louis Stevenson. Era dai tempi di Au hasard Balthazar che un asino non impartiva sul grande schermo lezioni di saggezza, compassione e trasparenza. La signora Vignal non arriva neanche alla caviglia del compianto ed erudito Robert Bresson. Nondimeno, al posto del margine d’enigma esibito in chiave autoriale per introdurre fertili varianti nella linea classica dell’odissea d’ingiustizie, il raglio di Patrick dinanzi all’egoismo rimpolpa la vivacità della messinscena. Appaiando alla seduzione degli spazi d’incontri e scontri, che sanno di déjà-vù, l’estrema solitudine, i chiaroscuri, la voglia di trascendere i sorrisi di rito. Laure Calamy, forte d’una spigliatezza simile a Debra Winger nell’età verde, aderisce con notevole pathos agli accenti festosi e alle composite sfumature dell’indomita Antoniette. Io, lui, lei e l’asino indica quindi nel mix d’intoppi, subbugli, approcci ed epidermici abbracci l’antidoto al sottobosco delle anime perse. Merito dell’ordine naturale delle cose e del sempiterno amore per gli animali.

 

Massimiliano Serriello