Il passaggio dal corto al lungometraggio avvenuto col film d’impegno civile Io non sono nessuno, imperniato sulle traversie della professoressa di matematica Mariasilvia Spolato che cinquantatré anni or sono nel giorno della Festa della Donna espose un cartello a favore della liberazione omosessuale per poi confessare pubblicamente di essere lesbica rivendicando a più riprese la propria diversità, a costo di venire isolata, sottopone la regista Geraldine Ottier all’incombenza di sottrarre il film d’impegno civile tanto alle secche dell’enfasi celebrativa quanto all’infertile egemonia dell’illustrazione idealistica sull’esposizione realistica. Relativa d’altronde a una vicenda vera.
L’onere di realizzare una sorta di apologo sul coraggio di non nascondersi mai comporta pure l’accortezza di eludere le facili scorciatoie manichee privilegiando la forza significante della scrittura per immagini in grado di spingere anche il pubblico meno propenso ad addentrarsi nel mosaico di situazioni vissute all’epoca del pansessualismo verbale e del fiume in piena della contestazione che travolse l’intero mondo civilizzato sulla scia dello slogan “fantasia al potere” a braccetto con quello denominato, ai limiti del ridicolo involontario, “vietato vietare”.

La sempiterna ricerca del tempo perduto, scomodata per innescare l’ampio flashback dopo l’incipit ambientato in una casa di riposo dove l’arzilla vecchietta mette in riga l’affabile fotografo intento a immortarla con uno scatto, traligna dapprincipio in uno schizzo piuttosto convenzionale. Il carattere frettoloso del racconto infatti impedisce lì per lì di dispiegare le debite sfumature della risoluta Mariasilvia, appena laureata col massimo dei voti, nelle dinamiche domestiche. Le figure degli apprensivi seppur teneri genitori restano perciò relegate di fianco. Senza incidere. Addirittura la dipartita del capofamiglia, seppur esibita con un pudore intimo ed evocativo degno di nota giacché capace di cogliere il senso di scoramento che ne consegue, paga dazio al bisogno di sintetizzare i viaggi introduttivi. Da Padova a Milano. Sino ad arrivare alla Città Eterna. Riflettendo alla bell’e meglio l’aria che si respirava all’epoca della cosiddetta rivoluzione sessuale. Sebbene un abile movimento di macchina da destra a sinistra, quindi nella direzione opposta a quella abituale, funga da fosco presagio all’intervento della controrivoluzione. Chiamata altresì in causa sul versante allusivo dalle molteplici correzioni di fuoco. In modo da vederci chiaro almeno in teoria negli eccessi dei partiti radicali di massa, nell’omofobia dei bulli avvezzi a maramaldeggiare, nei rischi connessi all’emancipazione su larga scala, nelle derive anarchiche, nella via d’intesa tra progressisti e reazionari. Necessaria a non confondere i diritti coi valori.

L’espediente tecnico ed espressivo all’atto pratico, benché tirato in ballo nel momento giusto della trama, resta invece sotto questo aspetto in superficie: suggerisce un interessante punto di vista in merito agli scontri privi d’incontri tra spinte chimeriche ed eredità culturale ma non l’approfondisce in toto. L’ago della bilancia è spostato viceversa step by step sulla questione delimitata della visibilità dell’insegnante militante che esce allo scoperto. La sottorecitazione di Erica Zambelli, che riduce al lumicino la solita verve brillante ed estroversa per vestire secondo copione i panni dimessi dell’introversa docente fiera però di appartenere all’altra sponda, avversa a qualsivoglia tipo di trucco nonché pure al linguaggio sboccato sorto dal pansessualismo verbale, ricava linfa dall’uso programmatico del deep focus. Il resto del cast, compreso Graziano Scarabicchi nel ruolo dell’amico gay mandato in ospedale dai facinorosi gradassi di turno, recita in maniera troppo scolastica per permettere alla rappresentazione dell’ambiente capitolino in quel periodo, con gli echi del ’68 sempre ingombranti, di riverberare la molla dell’azione violenta suscitata dall’atmosfera di ostilità dinanzi alla tomba delle illusioni. Dell’una e dell’altra parte. Tagliate entrambe con l’accetta del mestierante che privilegia le opere d’applicazione a quelle d’ispirazione. Volte a frugare tra le pieghe più segrete dell’animo umano sulla scorta del carattere d’ingegno creativo dell’autore che dice a ogni piè sospinto la sua sull’argomento trattato per portare a galla elementi altrimenti sotterranei.

Al posto della cripta dei gesti rivelatori, sostituiti dalle modalità esplicative, specie con la velleitaria danza dell’anziana madre desiderosa di aiutare la figlia abbandonata al contrario a se stessa, prende piede l’amore per la letteratura. Assurto ad antidoto contro il fragile confine che divide normalità e follia. Lo spaesamento delle voci che rimbombano in testa, attraverso l’attento mix di suoni diegetici ed extradiegetici, alza l’asticella. Il cuore che pulsa di nuovo all’impazzata, la soggettiva dapprincipio nebulosa, l’effigie poi nitida del filantropo impersonato da Ernesto Mahieux sfruttando il consumato gioco fisionomico devia ancora la già tenue corrispondenza tra denuncia ed elegia nei binari dell’affresco approssimativo. Lungi dal fondere i riusciti sibili melodiosi ed emblematici all’iconicità d’un volto sofferto, solcato da rughe impietose, fedele tuttavia alla matrice morfologica del chiodo fisso difeso con le unghie e con i denti. Ravvisabile nel decoro emanato dai tratti somatici. I valori visivi e musicali rimangono perciò impossibili da scuotere per entrare nei sogni della coraggiosa donna scossa dagli incubi di chi vede infrangere le speranze nutrite palmo a palmo. Il carattere frettoloso dell’inizio cede così opportunamente spazio in zona Cesarini al carattere d’autenticità della casa di riposo. Al sarcasmo che cela la sofferenza. Alla vena ironica che percorre il disegno abbozzato con garbata accortezza dei nonnetti ringalluzziti dal risveglio di primavera. L’effigie della stanza piena di libri lascia una traccia discreta ed emozionante. Io non sono nessuno chiude quindi i battenti, a dispetto delle parentesi patetiche, in linea con l’inno alla dignità meritevole del rispetto concesso a ogni visione che nel buio della sala irradia la ponderazione degli spettatori.
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