Judy: la Garland di Renée Zellweger

La rievocazione culminante del concerto dei Queen nel giorno del Live Aid, con la canzone We are the champions capace di valicare i limiti di un cordiale intrattenimento ed esprimere i moti dell’anima dei fan avvezzi a strapparsi i capelli per gli animali del palcoscenico, ha permesso a Rami Malek di aggiudicarsi l’Oscar come miglior attore salvando il modesto biopic Bohemian rhapsody, incentrato sugli slanci esistenziali dell’inquieto Freddie Mercury, in attesa di coniugare la vita all’imperfetto dopo aver contratto l’hiv, sulla scorta della dirompente carica congiunta al ricatto emotivo.

Bisognerebbe avere altresì il cuore di pietra, infatti, per restare freddi dinanzi al finale di Judy, predisposto ad arte dallo scaltro ma superficiale regista anglosassone Rupert Goold, con la mamma della celebre Liza Minnelli che si congeda dal suo pubblico grazie all’armoniosa ed energica vibrazione delle corde vocali, pur svilite dall’inesorabile altalena degli stati d’animo, e all’orgoglio da prima donna.

Eppure, alla stregua dell’involuto Bryan Singer, lontano parente nel polpettone in chiave rock dell’autore con la “a” maiuscola che seppe conferire al cult I soliti sospetti lo charme dei profondi motivi d’inquietudine sublimati dall’argutissimo colpo di scena, anche il collega inglese pesca nell’ovvio. Ed è assai probabile, malgrado ciò, che anche Renée Zellweger conquisti l’ambìta statuetta per la prova fornita nei panni dell’immalinconita Judy al crepuscolo.

Nondimeno è sbagliato nutrire dei pregiudizi nei riguardi dei film biografici. Ritenendoli di per sé scontati. La poliedrica cantante, ballerina e interprete Frances Ethel Gumm, ribattezzata Judy Garland, ispirò addirittura lo psicologo junghiano James Hillman per tracciare l’enigmatico ed evocativo profilo di personaggi veicolati verso il compimento del proprio destino dal cosiddetto daimon. La mancata vittoria, sempre dell’Oscar, ai tempi della performance di È nata una stella, rappresentava un ulteriore spunto per tener desta l’attenzione degli spettatori con dei veri furori del cuore.

Goold, invece, privilegia lo spettacolo della recitazione, inferiore al carattere d’ingegno creativo connesso dietro la macchina da presa alle debite proprietà stilistiche, ed esibisce i demoni privati, che minacciano i migliori angeli dell’indole umana cari ad Abraham Lincoln, con lo scartamento ridotto.

Anche se l’esperienza in campo teatrale gli consente di tingere d’imprescindibile autenticità le curiose ed eterne dinamiche stabilite in camera caritatis, nel momento di mettersi in gioco il ricorso ai flashback, con l’eterea Judy adolescente e desiderosa di sottrarsi ai diktat produttivi sul set del celebre film per famiglie Il mago di Oz, crea troppa attesa.

L’interazione tra passato e presente, con alcuni dolorosi flop sul palco causati dall’infelicità per l’ennesimo matrimonio rivelatosi un abbaglio, risente della mancanza degli accordi di montaggio in grado d’imprimere il diritto alla fantasia ed ergo alla gioia ad alcuni voluti scompensi nel ritmo narrativo.  L’ormai esperta Renée ci dà dentro di brutto. Storcendo le labbra per celare, in sorrisini e convenevoli forzati, tanto la rabbia quanto il groppo alla gola. Inarcando le sopracciglia, i fianchi, i reni. Arrossendo perfino.

Peccato che gli ovvi dettagli, intenti a scovare nel volto e nel linguaggio del corpo l’istrionico contrassegno del radicalismo mimetico sputasentenze, in Judy prevalgano sui sintomatici motivi di fianco. All’origine dell’ombra taciturna che cadenza, invece, delle rintronanti scene madri, i meandri dell’io interiore.

 

 

Massimiliano Serriello