Lo scopo della rappresentazione dell’horror spurio Julie ha un segreto risiede nel riuscire ad anteporre le corde sottese, che scattano cogliendo sul vivo il palpito di passione annidato dietro l’alienazione di antonioniana memoria, alle corde viceversa ritorte delle pellicole sbilenche ed enfatiche.

L’opera di giustapposizione mandata ad effetto con l’esordio nel lungometraggio dell’ambizioso regista Leonardo Van Dijl, già autore di due corti, Umpire e Stephanie, imperniati sulla forza significante degli eloquenti silenzi legati al mondo dello sport praticato in tenera età, tenta di trarre linfa dalla potenza evocatrice del richiamo citazionistico.

L’implicito omaggio a Blow-Up di Michelangelo Antonioni, con la giovane promessa selezionata nella categoria juniores della Federazione nazionale che finge di colpire una pallina inesistente sulla falsariga della partita a tennis mimata in zona Cesarini nel cult movie del compianto autore nostrano per accrescere ad arte il valore dell’immaginazione, ingenera diverse aspettative agli spettatori scaltriti. Congiungendo il lavoro di sottrazione dell’antiretorica alla fantasia visionaria necessaria a impreziosire gli effetti ossessivi della suspense meditabonda. Il prosieguo dell’incipit di Julie ha un segreto, attinto all’epilogo del giallo sui generis imperniato sull’ambita scoperta dell’alterità che non si può dimostrare né vedere ma si può percepire, mantiene le intrinseche promesse sulla capacità di conciliare il livello virtuale con quello attuale, relativo al suicidio delle acerbe atlete abusate in segreto dai loro subdoli insegnanti, o tradisce le aspettative ingenerate sul versante, già largamente esaminato altrove da fior di aedi della fabbrica dei sogni, tra realtà e immagine? Senz’alcun dubbio a Leonardo Van Dijl stanno a cuore gli incubi ad occhi aperti. Incuneati nel gioco fisionomico dell’immusonita Julie. Gli scarti decisivi, cari ad Antonioni, specie in “Blow-Up”, non gli interessano affatto. Ragion per cui il rimando introduttivo compie presto un velleitario giro di boa.

Destinato a tralignare di lì a breve la questione legata ai segreti risolutivi intuiti – ma negati alla soggettiva chiara e tonda, ed esposti quindi in maniera cifrata, lontana anni luce dalle magagne smascherate con chiarezza – dalla funzione finanche estetica dell’allegoria alle modalità esplicative della psicologia spicciola. Congiunta al crescente intervento dei processi della mente e del comportamento innescati per far cadere la maschera dell’infeconda apparenza. Che stenta a tradurre in opportuna prassi l’inane carattere teorico del thriller ascetico. Spacciato pretestuosamente per il carattere al contrario misterioso ed elegiaco relativo agli apologhi esistenziali. Impreziositi dall’arcano da svelare step by step attraverso sia il rigore clinico dell’emozione intellettuale sia il cifrario dell’anima affidato alla conoscenza intima da parte dell’artefice del film della materia rappresentata. Riscontrabile in Julie ha un segreto nei dubbi attanaglianti e nel valore introspettivo dei suoni intradiegetici stranianti ed emblematici, come quelli procurati dalla racchetta da tennis a contatto con la pallina. Delegati, sulla carta, ad afferrare le ragioni della nevrosi celata dietro l’apparente trance agonistica. Il ripiegamento iterativo invece all’atto pratico nell’impotenza creativa del training solitario, che stenta ad approfondire i motivi della superficiale ed evidente nevrosi lenita alla bell’e meglio nel fugace passaggio dall’introversione all’estroversione sui banchi di scuola e in occasione degli allegri seppur estemporanei pranzi improvvisati sull’erba con le altre compagne di studio, tradisce l’impasse dell’approccio, stringi stringi, impersonale sul riserbo di Julie in merito al guru ritenuto responsabile sotto l’aspetto morale del funesto crollo mentale d’una allieva anch’essa di belle speranze. Risulta quindi latitante un compiuto ed evocativo rapporto di sentimento tra il debuttante Van Dijl e i pensieri intimi. Nascosti nelle bordate dei dritti. Nello schiaffo prodotto pure negli ermetici rovesci dalla pallina sulla racchetta di Julie incordata ad hoc. Nell’interazione del sibilo, talora ovattato, talora morbido, talora urticante, col mix di vibrazione perenne, sensazione composita, incordatura indicativa ed esecuzione allusiva. Il riverbero metaforico della vibrazione sonora sulle trepidazioni di Julie, a cui viene a crollare una figura di riferimento sulla quale gravono raccapriccianti sospetti, necessitava del sentimento d’un regista esperto, eletto a buon diritto ad autore tout court, per permettere alla traslazione altresì delle frequenze di risonanza, accostate ai pensieri che rimbombano in testa all’ostinata campionessa in erba, d’incidere sul serio. Senza la virtù di sentire ciò che non ci è permesso di vedere i vagheggiamenti artistici vanno a carte quarantotto.

Nel momento di prendere quota infatti la risaputa scrittura per immagini, attinta dapprincipio ad Antonioni e in seguito agli alfieri degli scenari da brivido, scade in vacui compiacimenti intellettualistici. Distanti anni luce dalla sopraindicata emozione intellettuale. Che avrebbe consentito ai seguaci dell’arduo ed erudito lavoro di sottrazione d’imprimere alla sensazione del “bang” ad alto volume, giustapposto ai silenzi carichi di senso, alla pallina che viaggia a maggiore velocità, all’ingannevole combinazione, che produce un rumore minore, l’assordante ed empatico concerto di echi ancestrali, di brividi sinistri, d’incanti e disincanti. Sulle spiegazioni del cuore che predominano quelle della mente. Sulle sensazioni che ingannano. Sul dramma della psicopatologia. In contrasto con l’inquieta vita degli affetti precari ed ergo con l’infertile funzione consolatoria delle soap opere. Van Dijl si serve del fascino dell’irrazionale per prendere le debite distanze da qualsivoglia risvolto languido. Con il risultato di condannare la maschera di gelo della pur convincente Tessa Van den Broeck nelle meste vesti di Julie a una sorta di parossistico tira e molla d’indugi ed empiti trattenuti che fanno, per dirla alla Shakespeare, molto rumore per nulla. Le logore convenzioni narrative ricavate dalla personificazione sottobanco del Rischio e della Minaccia spingono così l’avventizio direttore d’orchestra a cercare nella detonante elusività dell’ispirazione poetica il cortocircuito per attribuire alla fase che precede l’inevitabile confessione conclusiva di Julie uno stato d’attesa colmo di significato. Grazie ai nodi che vengono al pettine e alla molla dell’azione che si avvicenda alla contemplazione. Tuttavia Van Dijl, anziché avvertire un sincero orrore per l’abuso perpetrato dal cattivo maestro nonché per la reticenza frutto della manipolazione, prova un’infinita ammirazione per i numi tutelari scomodati. Per dare varie interpretazioni all’ostinata circospezione della studentessa in procinto nondimeno di raggiungere mirabili traguardi. Julie ha un segreto paga dunque dazio all’egemonia degli espedienti cervellotici sull’emozione intellettuale. Che, senza delimitarne per filo e per segno tanto i criteri quanto i pretesti, di regola scandaglia appieno la prevalenza del male sul bene. Frammista nel caso preso in esame agli illusori sigilli acustici ed emotivi dello sport portato sul grande schermo da Van Dijl per mezzo degli stilemi del cinema da camera. Confinando quindi tra quattro mura il livello filosofico dei nani sulle spalle dei giganti. Abituati a mettere poca farina del loro sacco nel tentativo di rendere misteriosamente profonda un’opera di rigida giustapposizione e d’ovvia introspezione. Dal principio, avvincente, alla fine. Soporifera.


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