Jumanji – The next level: un luna park da schermo con l’inno all’amicizia sugli scudi

La formula commerciale tradotta in prassi dal regista Jake Kasdan, figlio del ben più sagace ed erudito Lawrence, autore dell’inobliabile apologo sulla complicità dell’amicizia Il grande freddo, compendia gag risapute ed espedienti vani in Jumanji – The next level.

Qui si affida alla strategia di riduzione del rischio d’insuccesso, che alla stregua dell’incognita della noia costituisce la vera bestia nera nel buio della sala riuscendo ad appagare, in veste di sequel avvezzo all’illusione dell’avventura e all’accumulo dei colpi di scena, solo ed esclusivamente le platee allergiche ai dispendi di fosforo. Non vi è, comunque, nulla di male nell’intrattenimento disimpegnato. Specie per un film di grana grossa ma dal piglio cordiale che esce sotto le feste per consentire forse anche ai boriosi fruitori, abituati ai rompicapi astratti, di evadere dal tedio spesso connesso all’ardua dinamicità interiore. L’impasse risiede, casomai, nella vanagloria di voler accostare all’aura gioconda, già alla base del previo Jumanji – Benvenuti nella giungla, una gamma di semitoni davvero fuori luogo.

La regola ufficiosa, eppure accanita, in merito al regresso qualitativo insito nella serializzazione, che paga quindi lo scotto di conquistare una sempre più cospicua popolarità con il diniego della critica, nasconde, invece, qualcosa di più delle fiere stroncature degli studiosi contro l’idea di presa immediata. L’ennesima strana coppia formata nell’incipit da Danny DeVito, nel ruolo dell’immusonito Eddie Gilpin, e Danny Glover, calatosi nei malinconici panni dell’amico del cuore Milo Walker con elegiaca sottigliezza, svela l’arcano. Il miscuglio di sacro e profano, rappresentato dal dinamismo successivo dell’azione insieme ad acuminate zone d’ombra a supporto degli accenti sommessi, persuade ben poco. La nostalgia per l’omonima commedia fantasy diretta nel 1995 da Joe Johnston, con Robin Williams, buonanima, impagabile nella parte dell’eterno ragazzo Alan Parrish, cresce considerevolmente. Quando i giovani Fridge, Bethany e Martha rientrano magicamente nel videogioco denominato appunto Jumanji trascinandosi dietro gli anziani di turno, i nodi vengono subito al pettine. Il volo dal cielo, l’atterraggio sulle dune del deserto, analogo a quello di Lawrence d’Arabia, la scelta obbligata di avatar diametralmente opposti sotto l’aspetto fisico ai modelli originari, gli equivoci creatisi di conseguenza, conformemente all’intreccio degli eventi, danno la stura ai contesti canonici. Lo spirito disincantato, sprezzante, canzonatorio di Eddie racchiuso nell’involucro muscolare ed edificante del fusto Dwayne Johnson alias The Rock riempie, almeno lì per lì, il sostanziale vuoto dell’opportuno controcampo psicologico.

Ad accrescere il pathos provvede in particolare l’innesto della geografia emozionale, con il passaggio alla montagna innevata, senza, tuttavia, poter trarre linfa da figure in possesso della medesima statura introspettiva ed empatica. La capacità del territorio d’influenzare persino i modi di agire, in mezzo ad alcune situazioni trite e ritrite, zeppe di botte da orbi, ruzzoloni continui, salti vertiginosi, inseguimenti all’ultimo respiro, resta perciò sullo sfondo. Ed è un motivo di rammarico per qualcosa che, se debitamente approfondita, avrebbe potuto mettere in risalto l’apprensione profonda ed epidermica celata dietro le quinte della farsa di circostanza. Veleggiando, al contrario, sull’infeconda superficie dei segni d’ammicco, riscontabili soprattutto nell’enfatizzazione degli attimi di maggior tensione spettacolare conseguita dall’ovvio slow motion, incapace, in ogni caso, d’impreziosire l’intensità del tempo reale, guardando oltre l’arcinota evidenza umoristica, l’atmosfera briosa scade, a forza di banalità, nel bozzettismo di maniera. Qualche risata, qua e là, ci scappa. Ma nulla da far reggere la pancia. Le trovate al servizio delle ragioni d’apprensione pescano troppo nel déjà-vu per tenere legati alla poltrona pure il pubblico munito di licenza elementare. L’interesse agli spazi fantastici dell’immaginazione, alla luce del valido ausilio delle scenografie e degli effetti speciali, va, dunque, a carte quarantotto. E con esso l’ambizioso desiderio di trascendere i limiti claustrofobici del cinema da camera.

La trama, allora, vacilla. Con l’esplicito ritmo da luna park, già largamente sfruttato nell’ambito mainstream, in antitesi coi punti di grazia ricercati nel confronto dell’ormai camaleontico Eddie con l’ex socio Milo, reo di aver venduto l’amato ristorante gestito insieme per sei lustri, ad arrivare in porto è l’emblematica percentuale d’assoluta puerilità. Confonderla col fanciullino del Pascoli rientra nei diritti di qualsivoglia spettatore. Il bandolo pretestuoso della vicenda stenta, ciò nonostante, ad appaiare l’ennesimo inno all’amicizia, con la sopraggiunta consapevolezza che invecchiare costituisce un dono, ai soliti tragitti pittoreschi. L’instabile sincretismo tra comicità demenziale, brio narrativo, meraviglia fiabesca, risvolti horror ed elementi ambientali scandagliati in filigrana, come la tavola calda rivisitata nel ritorno al tran tran giornaliero, non riesce affatto a fornire un valido antidoto agli incubi privati e collettivi in Jumanji – The next level. L’alternativa ai capolavori conditi d’arguta ironia, al pari del cult dell’illustre padre incentrato sul distacco della società ultra-competitiva contrapposta all’energia di un’intesa segreta, mena il can per l’aia. Forse Jake Kasdan, per non smentire l’adagio “buon sangue non mente”, deve smettere di aggiudicare del credito artistico agli aspetti ludici di una scrittura per immagini priva d’estro. Le opere ispirate dal desiderio di razionalizzare l’assurdo, e garantire un adeguato sviluppo alle note intimiste, sono tutta un’altra cosa.

 

 

Massimiliano Serriello