Katia Pesti: visioni di piano dagli Abissi

Un disco introspettivo, invernale, senza tempo. Un disco che lascia liberi i suoni. Si intitola “Abyss”, a cura della pianista e compositrice Katia Pesti. L’invito all’ascolto è un invito al silenzio e alla trasgressione dei normali piani di comunicazione. Un lavoro strumentale che non attinge alle forme conosciute e che richiede – anzi pretende – sensibilità più competenza alla didattica. Così come la Pesti non chiede agli strumenti il solo compito dei loro suoni. Il pianoforte così si piega a restituire suoni preparati, la voce che di quando in quando vocalizza e colora, e poi un mare di altre volatili apparizioni che si possono solo contemplare dal profondo di questi abissi. Un lavoro importante che rompe i canoni estetici per farne di nuovi. Un benvenuto su MondoSpettacolo a Katia Pesti:

È la tua musica che cerca di rappresentare quello che per te è bello o il contrario?
Immagino la musica come un flusso di energia in cui flusso ed energia coincidono. È come dire che la musica rappresenta se stessa: nel momento in cui elaboro un pensiero creativo esprimo un’idea che, da un punto di vista timbrico percepisco come bello, tutto qui. Frank Zappa diceva: …. parlare di musica è come ballare di architettura.

 

La sperimentazione dei suoni, soprattutto del pianoforte, cosa significa per te? Cosa ti spinge a chiedere altro dallo strumento che non sia nella sua diretta natura?
La curiosità e il desiderio di riuscire a scrivere una musica libera da influenze di gusto e di stili.
Il pianoforte non è solo un pianoforte … al di là della musica classica per eccellenza, oggi il pianoforte è come se fosse diventato un certo tipo di suono stereotipato, un po’ dolciastro, subdolo, rassicurante….direi anche rilassante! Credo, al contrario di rispettare la sua diretta natura; tu stesso hai sollevato il problema, riportando l’attenzione sullo strumento, che è tornato ad essere se stesso, protagonista della scena.

 

Le voci in questo bellissimo lavoro sono un corredo, uno strumento. Non hai mai pensato a renderle protagoniste come fossero canzoni?
Nei tre brani in cui è presente la voce ho puntato sulla qualità timbrica della voce senza per questo voler scrivere una canzone. Il rapporto tra la voce ed il pianoforte o gli altri strumenti è basato sulla mescolanza timbrica in cui la parte strumentale non vuol fare da accompagnamento, ma mantenere la sua funzione principale inglobando e mescolandosi alla voce di Gabin Dabiré ed Elaine Trigiani. Non avevo intenzione di scrivere una canzone…però è successo.

Dagli Abissi in fondo si può solo risalire. Questo lavoro che viaggio racconta? La rinascita o la discesa?
Questo lavoro è una metafora. Il racconto sta semplicemente nei titoli e nel testo di Rolling bones. La musica è astratta.

E secondo te perché ci si finisce negli abissi?
Gli abissi infondo siamo noi stessi. La nostra profondità. E’ inevitabile non esserci dentro.

La musica vista dagli occhi di chi la musica la vive ogni giorno. Perché secondo te nell’estetica mediatica di oggi non siamo mai avvicinati da progetti come il tuo?
Semplice. Progetti come questo sono totalmente fuori dai cliché.