Klaus: il cartoon Netflix dello spagnolo Sergio Pablos

Agli occhi dei cinefili avventizi, che abboccano all’amo dell’alacre punto di convergenza tra elementi tradizionali ed estro moderno, predisposto da un accorto posizionamento del prodotto d’animazione nella mente dell’apposito target, Klaus è un cartoon movie con le ali ai piedi e tutte le carte in regola.

Non bisogna, invece, nemmeno ricorrere all’alterigia dei critici alieni alle ragioni del cuore per accorgersi di come dietro la tenerezza stemperata dal valore dell’umorismo, riposto innanzitutto in rigide gag d’alleggerimento, i cucchiaini di zucchero si vadano ad aggiungere agli ovvi colpi di gomito.

La cifra stilistica del regista spagnolo Sergio Pablos, intento ad amalgamare i disegni fatti a mano, simbolo dell’energia significante della tradizione ed ergo dell’emblematica consuetudine che si oppone al nuovo che avanza, con l’agilità dei quadri tridimensionali, sorregge alla bell’e meglio l’azione.

Quantunque i caposaldi della geografia emozionale siano trattati in maniera spiccia ed esornativa, senza imprimere quindi all’effigie del villaggio vagante di Smeerensburg la virtù di riflettere l’altalena dei sentimenti contrapposti, affini al calore umano profuso in mezzo ai paesaggi di ghiaccio, l’apparente profondità di campo riempie, lì per lì, lo sguardo.

Basta, però, una seconda sbirciata per scorgere i segni d’ammicco riposti nelle scelte espressive congiunte alla gamma cromatica che allieta i luoghi dove l’indolente postino Jesper scopre la gioia di ridare speranza agli incupiti bimbi.

A dispetto dell’abile copione, redatto a quattro mani dagli affiatati Zach Lewis e Jim Mahoney per arricchire l’idea originaria dello stesso Pablos sulla genesi del mitico Santa Klaus, la scrittura per immagini, avvezze ai tocchi illustrativi, alieni di conseguenza ad autentici bagliori interiori, conquista solo ed esclusivamente il pubblico dai gusti semplici.

Quello, per intenderci, incline alla risata, dalla lacrima facile, sedotto dagli spunti vedutistici scambiati per scenari panteisti. Di autentiche invenzioni figurative non vi è neanche l’ombra. Anche se i tagli di luce provenienti dall’esterno ridanno nerbo, sia pure in modo piuttosto sommario, al cupo alloggio del ciclopico eremita con le mani d’oro.

L’anima che duole, l’amicizia di Jesper capace di fungere da pungolo alla rinascita, le frecce di Cupido scoccate per far sbocciare l’amore con la coriacea maestra volta a sopperire al dilagante analfabetismo dei pupi, sottratti all’ebbrezza della dolce scoperta, compongono un ritratto abbastanza vivace.

L’appeal degli inseguimenti, che tengono legati sulla poltrona i grandi, attratti dalla chimera dell’avventura alla Indiana Jones, e, appunto, i piccini, avvinti dalle fughe fracassone frammiste ai pistolotti moralisti, ha, però, il fiato assai corto.

L’ampio respiro dei capolavori dell’infanzia, tipo l’inobliabile dramedy Fantasia prodotto da Walt Disney, resta perciò un abbaglio. L’avverarsi dei dolci miraggi, con buona pace della rete di raggiri orditi dai cattivi di turno ai danni di Babbo Natale, provvisto dell’immancabile slitta e delle fedeli renne, trae poca linfa dall’artificioso naturalismo impressionista.

La minuzia particolareggiata dei riempitivi aggiunti non dà una gran mano alla spigliatezza delle situazioni farsesche che, al pari delle letterine coi buoni propositi, palesa l’assenza colpevole dei magici spazi della fruttifera immaginazione.

L’agnizione finale, con Jep felice di favorire il saldo criterio del buon vivere alla vacua fuggevolezza del bel vivere, insieme al nucleo domestico formato grazie all’alacre insegnante, risulta racchiusa nei limiti della pittura dei caratteri. Alla simpatia dello spettacolino per famiglie non corrisponde certo, in Klaus, l’estro necessario ad appaiare alla spontaneità di tratto la potenza dell’invisibile, ed ergo dello spirito, e del visibile. Ovvero la materia di cui sono fatti i sogni. Shakespeare docet.

 

 

Massimiliano Serriello