Il revenge movie autoctono La belva sciorina curiose cauzioni di commerciabilità. L’approdo sulle piattaforme, in attesa di poter uscire anche nelle sale cinematografiche, appaga senz’altro gli spettatori dai gusti semplici. Attratti dal richiamo dell’azione perentoria, aliena ai soporiferi rompicapo intellettuali, dal potere della recitazione e dal carattere di presa immediata unito ai sentimenti primitivi.
Fin qui non ci sarebbe nulla da eccepire: i gusti son gusti ed è quindi legittimo apporre varianti in tal senso rispetto agli apologhi intimisti. Traendo partito dai modelli d’oltreoceano. La coerenza dell’operazione in questi casi costituisce l’elemento determinante al fine di scongiurare il rischio dell’infertile scimmiottatura.
Il regista romano Ludovico Di Martino punta così appieno sull’avvincente psicotecnica interpretativa del carismatico concittadino Fabrizio Gifuni. Senz’altro degno di lode per l’aderenza alla scontrosa solitudine dell’inquieto Leonida Riva. Il lavoro dell’ambizioso ed eclettico attore capitolino sul personaggio coi nervi a fior di pelle, ex militare delle Forze Speciali traumatizzato e suscettibile, costeggia però soltanto il radicalismo mimetico dei mostri sacri americani. Da Robert De Niro in Taxi Driver di Martin Scorsese a Joaquin Phoenix nel recente mélo in chiave mistery A beautiful day – You were never really here di Lynne Ramsay. La belva, al contrario, con buona pace dei propositi riposti implicitamente nel mercato delle emozioni forti, estranee agli arzigogoli e ai pietismi, non ha granché di misterioso. Anzi. L’incipit, infatti, tradisce l’impasse degli incorreggibili plagi camuffati sotto le spoglie dei sentiti omaggi nei riguardi ora del classico Apocalypse now di Francis Ford Coppola ora del dramedy Qualcosa è cambiato di James L. Brooks. Un colpo di gomito a beneficio del pubblico più avvertito. Allietato nel distinguerne gli agganci sulla scorta della scontata componente ludica dei rimandi citazionistici. Le platee meno avvezze al gioco postmoderno d’ascendenza tarantiniana trovano comunque pane per i loro denti nelle pose cool del reduce che tracanna farmaci per gestire i soprassalti di rabbia e sconfiggere i demoni privati, osserva in maniera torva la propria immagine allo specchio, ostenta il cipiglio del duro ma puro, antepone i borbottii alle parole.
L’incursione nei territori del privato, dopo la rassegna degli esercizi stilistici, con l’insistito slow motion e le vane correzioni di fuoco sugli scudi, solleva un po’ le sorti della vicenda. Nonostante l’assenza di un’autentica suspense, in grado di tenere tutti sui carboni ardenti senza costruire castelli di carta per mezzo dei fatui mutamenti di prospettiva affidati ai parametri cromatici della compiaciuta fotografia, quando la figlia dell’ombroso armigero in pensione viene rapita il contenuto emotivo soppianta la tensione formale. Il ritmo narrativo lì per lì ne giova. Le corse adrenaliniche in automobile, gli zoom in avanti sul volto del poliziotto rimasto con un palmo di naso dinanzi alla tempestiva risolutezza del padre in cerca di vendetta, l’atmosfera notturna, quantunque attinta ad altri thriller metropolitani dotati di maggior spessore, riescono dapprincipio ad animare l’intero copione. L’apprezzabile polivalenza espressiva, decisa ad amalgamare il gusto dello spettacolo vigoroso, a suon di pugni sferrati con animalesca ferocia e armi bianche impugnate all’improvviso, all’essenzialità capace di evitare disastrose frane nel ridicolo involontario, cede tuttavia il passo al deleterio virtuosismo delle scene madri. L’escalation di rappresaglia ed efferatezza torna dunque all’abicì.
Di Martino, sprovvisto sia della sapienza introspettiva degli autori con la “a” maiuscola sia delle qualità artigianali dei professionisti che tengono ben salde le redini della trama, ci trascina nell’inidonea irrealtà. La maschera di sangue, ferocia, sofferenza dell’istrionico Gifuni, che perde in misura drammatica quel che acquista sul versante dell’ormai arcinoto slancio gladiatorio fuori tempo massimo, soffre d’incongruenze palesi. Il punto di convergenza tra calore umano e freddezza assassina, ad appannaggio dell’intenso Denzel Washington in Man on Fire – Il fuoco della vendetta del compianto Tony Scott, non lascia tracce significative ed esacerba formule già prive d’ingegno. Le soluzioni sceniche, anziché dare nerbo al regolamento dei conti e supplire all’ovvietà dei corpo a corpo grazie al giusto dosaggio di pathos febbricitante ed estrema pietas, con Leonida agli sgoccioli, lungi in ogni caso dal buttare la spugna, ripiegano nell’ordine del sommo castigo a duecento all’ora. L’epilogo mantiene inalterata la velleità di garantire un respiro internazionale a La belva mettendo in gioco botte da orbi, contegni virili, echi noir ed esplosioni furenti congiunte in zona Cesarini ad alcune note spiritose tirate via alla bell’e meglio. La gag di alleggerimento conclusiva funge da spia alla pesantezza di un prodotto nostrano che strizza l’occhio al Nuovo Mondo replicandone i vezzi. Senza convertirli in virtù.
Massimiliano Serriello
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