A differenza dell’intenso ritratto al femminile cui deve l’indubbia fama, Séraphine, che coniuga al rivelante contesto storico, ai primordi dell’instabile secolo breve, l’ansia di riscatto delle classi sociali più umili attraverso lo slancio espressivo dell’arte pittorica, La brava moglie testimonia il desiderio da parte del versatile regista transalpino Martin Provost di aggiungere alla messinscena stilizzata i timbri vivaci ed esilaranti dell’affresco burlesco.
Agire sul doppio binario della commedia brillante, svolgendo il mestiere in allegria per accorpare alla trama l’assoluta levità dell’intrattenimento disimpegnato, e dell’aguzza critica di costume, intenta invece ad anteporre agli innocui vezzi spiritosi il timbro introspettivo del disegno dei caratteri, necessita di una cifra stilistica compatta ed eterogenea.
Non basta infatti curare estremamente la forma, rappresentata dai décor fastosi ed eccentrici, per nascondere certi dislivelli sul piano dei contenuti. L’assunto narrativo, tirando in ballo la libertà assunta come scaltro pretesto dal movimento sessantottino e il rispetto per i valori ereditati dalla tradizione, dietro i quali si cela l’ipocrita ed empia egemonia della materia sullo spirito, anziché approfondire la forza significante dei luoghi eletti a location per svelare quanto influiscano sul turbinio degli stati d’animo e sulle emblematiche prese di coscienza, costeggia meri luoghi comuni. La pur volenterosa scrittura per immagini stenta a imprimere una marcia in più ai profili coloriti delle figure di contorno, all’obbligo civile frammisto all’osservazione canzonatoria, all’effigie dell’austera scuola per casalinghe. Contraria al vento del progresso che rischia di disperdere nel livellamento ugualitario i precetti tramandati di generazione in generazione. La modesta qualità del copione, viziato sottobanco d’enfasi popolaresca né più né meno di Séraphine, in grado però d’inserire alcune modifiche degne di nota nella geografia intima dei paesaggi riflessivi che ispirarono l’operosa protagonista a dipingere quadri concernenti l’ordine naturale delle cose, diventa così una palla al piede. Compensata in larghi tratti, almeno all’inizio, dall’attenzione all’arredamento d’epoca, agli abiti, alle scarpe, alle camice da notte di suore, allieve e insegnanti.
C’è da ritenersi soddisfatti ad avvertire l’influenza esercitata da Peter Weir con L’attimo fuggente, da James Mangold con Ragazze interrotte, da Jean-Pierre Jeunet con Il favoloso mondo di Amélie ed echi disparati ma dalla vivacità ugualmente gradevole se non ipnotica? Per uscire dal cinema sorridenti il richiamo all’altrui ingegno, supportato dai disinibiti piani d’ambientazione, è forse sufficiente. A patto da pretendere poco o niente dai cicaleggi delle studentesse, dagli scorci di vita congiunti alle varie tessere del mosaico muliebre, dal realismo fantastico che occhieggia qua e là insieme ad alcuni pistolotti edificanti. Affiorati nel secondo tempo quando alla nota graffiante si va ad appaiare quella funesta. Costringendo la rigida direttrice dell’istituto, interpretata da Juliette Binoche sulla scorta della stessa vena caricaturale mandata a effetto in Ma Loute di Bruno Dumont, ad affrontare l’esistenza senza ulteriori paraocchi. In precedenza le lezioni impartite in merito all’economia domestica, i contegni severi, i passaggi iconografici, le risposte mimiche, i dettagli ravvicinati, le inquadrature simmetriche, gli stacchi di montaggio, i match-cut visivi e sonori, i carrelli laterali sono innalzati ad atti d’intrinseco riconoscimento per assumere una funzione creativa. Il gusto d’irridere i convincimenti errati connessi ai dati antropologici ed etnologici, esposti per mezzo di una tecnica fedele alla cura degli spazi al vetriolo, rientra nei legittimi propositi d’ogni autore estraneo alle viete melensaggini.
Connettere gli zoom all’indietro ai siparietti in cucina, in classe, nelle camerate, nell’orto da coltivare con ieratica solerzia, nelle tavole apparecchiate ad hoc, negli anfratti dove il veglione notturno in comitiva sparge i germi dell’attesissima fronda, gettando in tal modo alla finestra qualsivoglia pretesa di garantire all’aura convenzionale l’apporto della suspense per tenere il pubblico sui carboni ardenti, vuol dire viceversa sottrarre al sottosuolo dei gesti i balzi dell’anima. Dopo il colpo di gomito dell’ammiccante campo lungo, in omaggio sia ai facondi silenzi del cinema muto sia alle cornici panteiste dei western crepuscolari, le prediche e le omelie di rito cedono la ribalta al contrappunto dei trapassi tragicomici. Allora è il clima di complicità, d’utopia ed euforia, di rinascita ed empatia dei musical a scandire l’intero prosieguo. Tralignando in logoro moralismo gli armoniosi ammaestramenti decisivi. In sostituzione dei vecchi magisteri. A dispetto dell’ottima prova fornita dall’intero cast, specie l’attrice-feticcio Yolande Moreau che nel ruolo della cognata dell’ingenua preside lascia al palo l’involuta Juliette Binoche, la scioltezza dell’operetta perde parecchi colpi strada facendo. La brava moglie resta un velleitario compendio di passioni, illusioni, risvegli, partecipazione, giri di danza ed emotività. Trita e ritrita. Esacerbata pure dall’iperbole rivendicativa.
Massimiliano Serriello
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