A dieci anni dall’esordio in cabina di regìa nel lungometraggio avvenuto con Lo chiamavano Jeeg robot, dopo alcuni corti già in grado di conciliare il puro intrattenimento dei prodotti d’oltreoceano sui personaggi dai superpoteri e lo scavo introspettivo degli apologhi sui reietti attanagliati dall’ansia d’impazzire, Gabriele Mainetti, superato l’impasse in cui è incappato girando Freaks out per rileggere l’esito del controverso conflitto civile scoppiato nel Bel Paese al termine dell’armistizio dell’8 Settembre 1943 attraverso una chiave di lettura fantasy, rende omaggio agli stilemi dei martial arts movies. Uno dei filoni di maggior rilievo del cinema di Hong Kong.
Tuttavia il fine dell’ultima fatica di Mainetti, La città proibita, risiede, sin dalla sceneggiatura redatta insieme agli affiatati Stefano Bises e Davide Serino, nell’accoppiare i coefficienti spettacolari degli emotion and action pictures al dato antropologico ed etnografico relativo al parallelismo tra due culture in apparenza agli antipodi.

“Qui da voi” sostiene il surrettizio Mr. Wang, proprietario del losco ristorante dal nome che dà titolo al film, “tutto è permesso e niente è importante. Da noi niente è permesso e tutto è importante”. Nonostante l’apparente sforzo profuso per trascendere la pigrizia delle idee prese in prestito, congiungendo i topòi dell’identitaria Commedia all’italiana, con I soliti ignoti di Mario Monicelli sugli scudi, alla suggestione esercitata dall’isterismo visivo sul pubblico dai gusti semplici, l’incipit rimanda sottobanco al prologo dell’inobliabile C’era una volta il West di Sergio Leone. Il senso di déjà vu racchiuso nel quadretto del prodigo padre di famiglia costretto a interrompere le lezioni di kung-fu al sangue del suo sangue da un subdolo gerarca, nascondendo la secondogenita, sull’esempio di Quentin Tarantino in Bastardi senza gloria, per non pagare dazio alla legge per cui è concesso avere solo un figlio in ogni nucleo domestico, traligna subito l’intempestivo darwinismo antropologico nel folclore di facciata. Il roboante salto in avanti dal 1995 ai giorni d’oggi, scandito dal passaggio dalla ninna nanna della premurosa mamma alla luce abbagliante che attanaglia le donne soggette allo sfruttamento della prostituzione, perpetrata dalla bieca partner di Mr. Wang, vorrebbe alzare l’asticella con una messa in scena estremamente evocativa. Al pari della toccante sequenza del thriller metropolitano Redemption – Identità nascoste di Steven Knight nella quale l’ex soldato reclutato dalla mafia cinese a Londra si accerta tastando le mani sporgenti degli immigrati clandestini ancora in vita. La crudezza oggettiva invece cede subito la ribalta alla carica di aggressività dell’ex bimba divenuta adulta in cerca della sorella. La rapidità iperbolica, rallentata a tratti dallo slow motion per accrescere le risposte empatiche delle masse allergiche ai dispendi di fosforo, inclusa la capacità di far riflettere ironicamente ad appannaggio del compianto Monicelli, le mosse equiparate secondo copione ad aggraziati numeri di danza, i calci a mulinello, il pugno centrale dritto, frutto degli ammaestramenti paterni, le sforbiciate ruotate, l’intero peso del corpo immesso nel taglio della mano in verticale, l’arguzia nel dimenarsi in una baraonda di avversari sull’esempio di Beatrix in Kill Bill, gli strascichi comici relativi alle soluzioni escogitate al momento per stendere il manipolo di ribaldi sembrano effettivamente voler costituire un provvido antidoto contro l’impietosa durezza della realtà nuda e cruda.

L’evasione, tipica delle pellicole d’exploitation abituate a tenere desta l’attenzione degli spettatori privi di tante pretese anteponendo lo spigliato dinamismo del sensazionalismo cool agli elementi dotti ed emozionanti dell’aura contemplativa, mostra però presto la corda. Appena cerca di attribuire una cornice spiritosa all’ovvio mix d’interni opprimenti ed esterni catartici con lo scandaglio ambientale degli abitanti della Città Eterna immersi nel traffico del rione Esquilino. Ridotto a veleggiare sulla superficie delle sarcastiche ed ergo sdrammatizzanti forme bandiera dell’arcinoto volgo capitolino. L’effigie di Piazza Vittorio, eletta ai tempi ad attante narrativo carico d’intenso significato da De Sica senior in Ladri di biciclette, compendia adesso l’insieme delle varie etnie impiegate nel commercio abusivo o quasi nell’ormai vetusta università della strada con la battuta dialettale storpiata sempre sulle labbra. Lo scopo consiste nel permettere alla logica grigia connessa alla virtù dei luoghi riflessivi che riverberano gli stati d’animo, ora in subbuglio ora avvolti nel tepore del disincanto, d’acquisire la verve variopinta, alla medesima stregua delle composite razze a braccetto dei ritrosi ma affabili romani, rinvenibile nelle canoniche fughe e nei cruciali inseguimenti di eroi ed eroine di qualsivoglia sorta. L’ingresso nella cucina della trattoria limitrofa “Da Alfredo” sigilla l’incontro-scontro dell’ennesima Lady Vendetta proveniente dall’Oriente, Mei, col figlio del proprietario, Marcello, rassegnato a sudare sette camicie ai fornelli rinunciando ai propri sogni. A esacerbare gli incubi provvede il rinvenimento dei cadaveri dissepolti di Alfredo con l’amichetta dagli occhi a mandorla. I volti contriti e contrariati dei congiunti, rischiarati nella penombra della sequenza notturna dal fuoco della pira funeraria, impiegata per bruciare i corpi della coppia seguendo il severo cerimoniale, vecchio di millenni, evidenziano l’inutile tentativo di amalgamare i topòi del cinema di presa immediata ai tratti distintivi del cinema ascetico. Avvezzo a convertire il risalto figurativo in ragguaglio introspettivo. L’alone di mistero iniziale dura al contrario lo spazio d’un mattino. Con buona pace del puzzle da risolvere step by step nelle pieghe d’un intreccio zeppo di piste che concorrono al piacere di ricavare dagli sviluppi imprevisti momenti al cardiopalma. Che fanno sentire le platee, solitamente passive di fronte al taglio secco delle inquadrature e al rigoroso lavoro di sottrazione delle opere davvero d’autore, partecipi della vicenda trasposta dall’enfatica scrittura per immagini. Ben lungi dal risparmiarsi l’infeconda strizzatina d’occhio ad appannaggio dell’ammiccante pseudo-cultura post-moderna che cade nel ridicolo involontario con l’inchino a Vacanze romane di William Wyler.

Il bacio romantico dei due ragazzi nelle rovine dell’area archeologica, al termine del giro in motorino ad ammirare a braccia spalancate l’autentica bellezza dei monumenti che mandano a carte quarantotto la falsità dei fotomontaggi di Mr. Wang con Bruce Lee nel locale dove il gioco da tavolo del Ma Hong suggella l’atroce egemonia della materia sullo spirito, rientra perciò nell’ordinaria amministrazione d’una vana polpetta romanzesca. All’oscuro, a dispetto del programmatico connubio della pasta all’amatriciana coi piatti della tradizione orientale, dei necessari momenti d’intima delicatezza. Da ricercare nel teorema di gesti dispiegati dalla verità interiore anziché dall’accumulo delle reiterate pose esteriori. Non basta dunque che Sabrina Ferilli, nei panni della consorte abbandonata da Afredo, e Marco Giallini, nelle vesti del malavitoso di piccolo cabotaggio, intonino i versi di cantanti autoctoni rimasti alla storia per sopperire alla grossolanità dei rispettivi personaggi acquisendo l’acume poetico di Wong Kar-wai in The Grandmaster. L’immancabile duello conclusivo, il ripiego in zona Cesarini nella vieta tendenza ad accentuare le manifestazioni d’affetto, dapprincipio rifiutate dal cinismo della visione individualista, e i tardivi atti di contrizione, intenti a sconfessare la maschera sprezzante che batte costantemente sullo stesso chiodo per esprimere lo slancio dell’inganno accoppiato al disinganno nonché l’assoluto rifiuto d’integrarsi coi vicini di casa stranieri, la conclusione disneyana, oltre a sancire l’inchino alla funzione consolatoria dell’happy end, allegando la violenza decadente all’amore trionfante, palesano le velleità dell’ansia di riaffermazione. La città proibita, quindi, mutando l’amaro destino dei perdenti nel dolce riscatto degli inattesi vincitori, getta l’esca per i fans – felici di abboccare – del dinamismo dell’azione, sprovvisto però di spessore stilistico, e tira via. Scambiando l’inane coinvolgimento emotivo per la sete di sapere insita in nuove visioni. Al posto della confezione di collaudati sentieri dai modesti confini estranei all’intensità elegiaca di territori tutti da scoprire.
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