Inchiodare l’attenzione del pubblico in termini intellettuali ed emotivi attraverso il proprio immaginario e l’assoluta conoscenza intima del tema trattato suggella l’investitura ad autore con la “a” maiuscola di qualsivoglia regista alle prime armi. In grado però di sintonizzarsi sin dal debutto sulla medesima lunghezza d’onda degli spettatori maggiormente avvertiti. Attratti quindi dai film avvezzi ad amalgamare il carattere d’ingegno creativo al carattere d’autenticità.

È il caso pure del film d’esordio di Kyle Hausmann-Stokes, intitolato La mia amica Zoe, che tiene ben salde le redini del racconto d’introspezione fedele agli stilemi dell’atipico apologo al femminile sul sentimento di complicità sorto in guerra?

Nell’incipit l’ambizione di lasciare subito il segno sul versante dell’approfondimento psicologico riconducibile altresì agli acronimi PTSD ed EMDR, concernenti sia la forma di disagio mentale dovuta a un’esperienza traumatica sia l’approccio terapeutico predisposto per liberarsi dei fantasmi privati ivi congiunti, sembra cedere, benché obtorto collo, la ribalta all’accidia delle idee prese in prestito. Nel rapporto dell’immusonita protagonista, Merit Charles, con l’ex commilitona Zoe, abituata a seguirla alla stregua di un’ombra, emergono immediatamente i plagi camuffati da omaggi nei confronti del pluripremiato A beautiful mind di Ron Howard. L’arcano sull’allucinazione d’interagire con una persona che in realtà non c’è più, se non nella mente d’un soggetto incline a fuggire dal crudo stato delle cose, svelato dalla reazione degli estranei ai colpi di gomito che lambiscono a vuoto l’aria, traligna infatti nell’infeconda sensazione di déjà vu. Al pari dell’ennesima canzone intonata in automobile, dopo un breve accenno di ritrosia, per sigillare l’affinità elettiva dell’affetto sull’esempio di Nanni Moretti ne La stanza del figlio. Lo stesso discorso vale per i parallelismi con Sul lago dorato di Mark Rydell. Assai evidenti nell’effigie panteista dove il nonno di Merit, Dale, veterano dell’esercito a stelle e strisce ligio ai vincoli di sangue e di suolo, affronta giorno per giorno l’atroce vedovanza a un tiro di scoppio dall’impietosa demenza senile. Le inevitabili interpolazioni rispetto agli illustri modelli di riferimento saccheggiati non aggiungono nulla degno di nota. Giacché inerente alla vana necessità di adattare l’estro altrui alla coerenza narrativa dell’assunto. Imperniato sui programmatici trapassi interiori, sulla ricerca del tempo perduto caro a Proust nuovamente sugli scudi, sui nervi muliebri tesi spesso sino allo spasimo, sulle punture di spillo connesse all’amaro confronto generazionale, sull’ossessione di frugare, strada facendo, sotto la pelle di ampie platee. Incuranti dei passaggi obbligati della trama attinti ad altisonanti numi tutelari fuori dalla portata dei meri novellini allo sbaraglio.

Il veicolo indispensabile per sviscerare, al riparo dai luoghi comuni, la questione tanto del rientro alla vita civile di chi ha rischiato di coniugarla all’imperfetto al fronte quanto del supporto fornito dalle terapie di gruppo ed eludere perciò l’impasse dei copia e incolla, benché dispiegati in filigrana, risiede nella forza significante dei luoghi riflessivi. Che riverberano cioè nell’opportuna interazione tra habitat ed esseri umani a Mololla, nell’Oregon, l’altalena reale degli stati d’animo. Determinando anche step by step i modi diversi di reagire alle raccapriccianti ferite dell’anima. Il lago, l’abitazione dell’incerottato capostipite appartenente alla razza WASP (White Anglo-Saxon Protestant) ovvero dei bianchi anglosassoni protestanti, fiero di aver messo su famiglia con una bellissima afroamericana, il porticato, la natura attigua, avversa ai chiodi fissi degli strizzacervelli, il ritrovo per reduci all’aperto, coi nuclei domestici appaiati ai modelli cognitivi eletti ad antidoti contro gli elementi di disgregazione esacerbati dalla morsa dell’alienazione, rialzano appieno il tono dell’affresco intimistico e sociale. Affrancandolo dalla dialettica tra introversione ed estroversione tratteggiata in maniera poco convincente grazie alla spontaneità di tratto della sequenza in cui il nonno burbero e la nipote chiusa nell’indefesso riserbo, sul rimorso che sembra voler espiare isolandosi dall’isola felice scevra dagli uragani di fuoco, cantano l’inno patriottico impreziosito dall’egemonia delle debite sfumature sui ridondanti accenti. L’implicito lavoro di sottrazione, aggiungendo all’invisibile ciò che toglie al visibile, anima infatti il sottotesto della vicenda ed esibisce il riaffioramento del sentimento per i vincoli di suolo e di sangue. Lungi dal tralignare nell’inane sentimentalismo. Mentre la ripetizione affiora a ogni piè sospinto laddove l’acume degli antesignani cela qualche falla sul piano dell’esplorazione peculiare dell’amicizia tradita, rievocata per mezzo del carattere deliberatamente sbrigativo ed ellittico dei flashback a supporto dell’ovvia suspense da soap opera, l’aura meditabonda dei paesaggi e degli spazi riflessivi ricava parecchia linfa dall’impeccabile misura. Innescata dalla fragranza dell’originalità.

A quel punto la decisione in zona Cesarini di confessare le ragioni del trauma dissociativo con l’ausilio del mite ma caparbio guru dell’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) impersonato con la proverbiale classe recitativa dal decano Morgan Freeman mette finalmente a nudo il processo di riflessione ed esplorazione del dolore nascosto. Lo spettacolo secondario della recitazione è altresì assicurato dall’intensa ed epidermica aderenza della convincente Sonequa Martin-Green agli alti e i bassi della rediviva Meri. Dal compiuto gioco fisionomico della bravissima Natalie Morales nei panni dell’amica spaventata dall’esistenza nei patrii confini una volta appesa la divisa militare nella naftalina dei ricordi. Dal vecchio leone Ed Harris che si guadagna la Palma dell’interprete migliore nelle logore vesti del veterano solo apparentemente svampito in virtù della prodigiosa psicotecnica. Impreziosita dalle fascinose ed emblematiche rughe d’espressione. Lo spettacolo principale della regia, nonostante l’attitudine iniziale ad affidare all’arguzia degli esperti Maestri l’incombenza di fugare i tipici dubbi dell’autore avventizio sulle dinamiche che contraddistinguono il rapporto tra immagine e immaginazione, trasfigura l’esperienza vissuta davvero sulla sua pelle in Iraq nella sorellanza stabilita all’interno della provincia meridionale afghana per sostenere la creazione di un governo democratico al riparo dalle follie dei terroristi. La mia amica Zoe comunica quindi molte tribolazioni assai risapute. Conformi perciò alle banalità scintillanti che attribuiscono la parvenza d’uno scandaglio dal punto di vista dell’infeconda forma ai vari contenuti cruciali tirati in ballo. Al contempo La mia amica Zoe ci rende invece partecipi di alcuni particolari sul tran tran giornaliero dei reduci che esulano sul serio dall’ordinario. In ultima analisi il contenuto, attribuito al cuore pulsante d’un’amicizia fiorita durante la guerra, incapace di proseguire nel periodo di pace, prevale sulle scopiazzature celate alla bell’e meglio dalla veste formale adottata per timbrare unicamente il cartellino. Ed è giusto così.


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