Sono trascorse ventisette primavere dalla vittoria dell’Oscar come miglior film straniero ottenuta con l’arguta commedia romantica Belle Époque, imperniata sulla levità espressiva che privilegia la gioconda simpatia delle avventure picaresche all’inflessibile storicizzazione della trama, e l’esperto regista Fernando Trueba, ex critico a conoscenza degli eterogenei linguaggi della fabbrica dei sogni, ha decisamente mutato segno.
L’ambizione, già ben visibile nei previi biopic The queen of Spain ed El artista y la modelo, contraddistinti dall’egemonia dell’inno alla resistenza contro l’egida reazionaria e all’energia salvifica della creatività umana sul valore terapeutico dell’umorismo, tocca l’acme con La nostra storia.
L’adattamento per il grande schermo del celebre romanzo autobiografico L’oblio che saremo, redatto da Héctor Abad Faciolince per rendere onore all’affabile patriarca colombiano impegnato nel sociale, ai vincoli di sangue e di suolo connessi all’osannato livellamento ugualitario, alla quotidianità in seno alla famiglia, sconvolta dal turbinio degli eventi pubblici, costituisce una bella gatta da pelare. Il ricorso al bianco e nero nell’incipit, ai colori lucenti nei lunghi flashback, a quelli volutamente sbiaditi, tipici dei prodotti dilettanti in super 8, in ricordo dell’età verde della sorella Marta, stroncata dall’impietoso tumore, persuade gli spettatori dai gusti semplici a gridare al capolavoro. Quelli più avvertiti invece troveranno piuttosto pretestuosa la scelta di unire le diverse dinamiche figurative alle fasi topiche dei consorzi domestici. La fascinazione esercitata dalle potenzialità mimetiche cede infatti il passo a un convenzionale atlante di affetti che coglie nel segno quando intreccia la tenerezza della sfera intima ai sediziosi dissidi nell’ambito collettivo. Applicando per molti versi gli schemi largamente collaudati da Warren Beatty in Reds e da Giuseppe Tornatore in Nuovo cinema Paradiso. Non a caso l’incanto sempiterno del buio in sala apre il film con la visione a Torino nel 1983, all’epoca dell’Università frequentata lontano dal focolare, dell’intenso gangster movie Scarface di Brian De Palma.
Stigmatizzato a fior di labbra dal ventiquattrenne Héctor per la nomea della gente sudamericana associata alla voluttà di dominio, all’ignoranza più becera e all’empia sete di sangue. Ad abbaiare alla luna è viceversa il vanaglorioso esito estetico ed espressionista. Incapace di conferire agli angoli di ripresa, ai décor iconografici, all’evidente complicità del babbo medico con le quattro figlie e l’unico erede maschio una valenza psicologica ed evocativa aliena ai soliti cascami mélo. L’elaborato salto indietro nel tempo mette in cantiere vicende individuali ed empiti comuni, esistenza quotidiana ed elementi simultanei, intenti didascalici ed echi poetici. Mentre il personaggio del dottore-docente, che insegna agli alunni sedotti dallo slogan della fantasia al potere a trarre in salvo le vite anziché a porre loro fine sulla scorta dell’onda rivoluzionaria, sembra fortemente sentito, tanto negli accenti munifici quanto nelle varie sfumature, intrise pure di stizza e impotenza per la sorte riservata al sangue del suo sangue, i quadretti dei congiunti scadono nell’inane bozzettismo. L’effigie della pre-adolescenza, con l’imberbe Héctor soggetto ai cali di personalità, predisposto alla spavalderia, facile al pentimento, bisognoso di abbracci catartici ed epidermici, è sbozzata alla brava. Senza esplorare i pertugi quasi incantati dell’accogliente dimora e le tenere lezioni del padrone di casa sulla falsariga di Claudio Noce nel pur enfatico Padrenostro. Al solerte taglio dello spazio al chiuso, impreziosito dall’abile uso del deep-focus negli attimi di maggior commozione per moltiplicare gli ambienti e sopperire all’ovvia cura aneddotica con le punte emotive che mandano in brodo di giuggiole i seguaci delle soap strappalacrime, non corrisponde l’adeguato studio dei luoghi identitari in esterno.
I fatiscenti barrios, a corto d’acqua potabile, le latitudini geografiche, gli ardui sistemi di relazione, col genitore, avverso ai privilegi, che si danna l’anima per risolvere l’atavica iniquità, a costo di palesare la predilezione per gli ideali atei rispetto alla fede in Dio, circoscritta nel cameo della gracile suora chiamata dalla moglie credente ad ammonire la prole sulla giustizia dell’altro mondo, risentono dell’assoluta penuria di paesaggi riflessivi. Rimpiazzati dagli esanimi sfondi di Medellín conformi ai rilievi illustrativi sprovvisti dell’indispensabile dimensione antropologica ed etnologica. La ricerca di disparate scene-madri, anziché dell’alterità allo scopo di spingere le platee a capire davvero i moti d’odio e d’amore che covano sotto la cenere del territorio eletto a location, invece di tirar fuori il fazzoletto a ogni piè sospinto, conferma la tendenza ad anteporvi soavi ma risapute pitture attinte al simulacro trito e ritrito di Piccole donne. Non ci sarebbe comunque granché da eccepire se l’innesto dei ridondanti riverberi e delle prospettive deformate dal lutto irreparabile non puntasse ad aggiungere troppa materia grigia al groppo in gola. L’esercizio di giustapposizione tradisce al contrario l’immodestia d’introdurre nella carica narrativa, oramai tirata sino allo spasimo, il fluire d’archetipi intenzionati ad accrescerne l’ipnotico coinvolgimento. La nostra storia, a dispetto della prova d’alta scuola dell’appassionato attore spagnolo Javier Cámara nei panni del cordiale ma coriaceo capostipite, brama la profondità prospettica e cade al dunque nell’ampollosa superficialità dei polpettoni forieri di attese ed esili d’ingegno.
Massimiliano Serriello
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