La pittrice e il ladro: un mistero senza fronzoli per Benjamin Ree

Lo scaltrito regista norvegese Benjamin Ree, specializzato nel linguaggio documentaristico, sprovvisto dell’elemento di persuasione garantito dalla recitazione, non la tira troppo per le lunghe con La pittrice e il ladro. Né ricorre all’ausilio di fronzoli od orpelli vari seguendo nell’arco di tre anni, col consenso degli interessati, l’intesa stabilita dalla pittrice iperrealista Barbora Kysilkova e dal ladro pentito Karl Bertil Nordland. Colpevole di aver compiuto un furto con destrezza, insieme a un compare poco raccomandabile, per appropriarsi di due suoi quadri custoditi in una galleria d’arte di Oslo. Munita delle telecamere di sorveglianza.

Il margine d’enigma da svelare risiede nella contraddizione per cui la coppia di balordi, l’uno stordito dalla droga, l’altro preoccupato di apparire minaccioso, sia riuscita nel fare la cosa più difficile, per poi scivolare in una buccia di banana. E rubare il frutto del carattere d’ingegno di un’artista misconosciuta. Il timbro d’autenticità costituito dalla solerzia di Barbora, gratificata dall’interessamento, è un valido punto di partenza.

La tenerezza creatasi tra la vittima e l’imbelle carnefice schiavo nel fisico e nello spirito degli allucinogeni, desideroso di riscattarsi, dopo il periodo trascorso in prigione, non cade nell’impasse dell’enfasi di maniera. Benjamin Ree include dapprincipio la fase creativa, con l’apposita tela in attesa di essere riempita con gli schizzi a mano, l’estro dispiegato palmo a palmo, l’impegno profuso nel catturare l’attimo propizio. La destrezza tecnico-formale rimedia al timbro forse troppo sbrigativo che sul versante del contenuto, ed ergo della penetrazione psicologica necessaria a esibire appieno la capacità di cogliere anche i minimi particolari relativi alle componenti del reale per riprodurli arricchendolo d’inedite prospettive, risulta piuttosto spiccio. Nondimeno le azzeccate note a supporto della musica extradiegetica, i fluidi movimenti di macchina all’indietro, per snudare alcuni nitidi dettagli, l’effigie dei motivi d’ispirazione concedono poche banalità. Anche senza sciorinare soluzioni espressive degne d’encomio rifulgendovi il tumulto risolutore, passando dall’osservazione all’azione, la sobria ed essenziale scrittura per immagini timbra il cartellino. Come si addice al linguaggio dei documentari in grado d’imprimere al racconto a corto d’impennate tipiche dei film di finzione un mix d’input visivi ed elementi concettuali. Lontani anni luce, ben inteso, da qualsivoglia corrente d’avanguardia. La sobrietà d’accenti, scelta per lasciare agli schizzi, alle rifiniture, ai ritratti dell’autrice derubata ma al contempo ricompensata dall’involontaria lusinga lo spazio principale, alza il tiro quando subentra la dinamica campo/controcampo. Che pone a confronto per la prima volta, de visu, Barbora e Karl. Mostrato dapprincipio attraverso il computer, nel profilo Instagram, nelle pose, col petto in fuori, da piccione, ad appannaggio della gente comune che emula sui social l’esibizionismo dei divi estranei alle ingiurie quotidiane.

Ed è interessante invece constatare sin dalle prime battute del faccia a faccia, archiviata la vana corazza dei tatuaggi con la dicitura “gli spioni sono una razza in via d’estinzione” in evidenza, come Karl appaia ferito dal tran tran giornaliero. Diverso, nei pacifici alti e bassi, negli ostacoli da superare uno a uno per poter raggiungere le mete prefisse, dall’universo spianato. Ambìto, con ogni probabilità, sotto l’effetto dei narcotici. In tal senso il sottotesto, la vita extrafilmica, le cose non dette, né manifestate, bensì sentite per mezzo delle inquadrature degli occhi, specchio dell’anima per antonomasia, al posto delle modalità esplicative dei programmatici botta e risposta, contribuiscono ad accrescere i tremiti sottopelle. L’egemonia dei semitoni sull’infeconda piattezza dell’ovvio percorso – che va dalla circospezione alla complicità, a dispetto delle assillanti domande della pittrice sul lato oscuro del ladro a disagio (neanche fosse Lord Fener) – innesca un’analisi sensibile ed esaustiva d’ambedue i protagonisti. Che, pur interagendo senza gli strumenti di fascinazione degli attori (dal sigillo fisionomico alle posture riflessive, dalla reminiscenza agli sviluppi interiori ed esteriori snudati ora dal principio di negazione del corpo in combutta con l’inconscio ora dai codici esibiti dai muscoli facciali), manifestano la volontà di trascendere, ciascuno a modo proprio, i limiti che li attanagliano. Al pari dei ricordi traumatici. Dipinti sul volto. Il taglio dell’inquadratura, rigoroso e solerte rispetto alle sfumature rintracciabili negli scatti sfocati, nei bozzetti, nelle mescolanze configurate dai colori, nell’aura contemplativa, funge da supporto. In sordina. Il lavoro di sottrazione, allergico alla tendenza ad aggiungere particolari su particolari per convertire le ragioni d’incertezza e d’inquietudine in saldi ed eclatanti coefficienti spettacolari, compendia la convergenza tra sgomento ed empatico incanto.

L’intrigo, al riparo dall’occhio ubiquitario dei thriller sensazionalisti che si servono sia dell’appeal delle reazioni mimiche padroneggiate da cast d’assoluto richiamo sia degli stravolgimenti ottici intenti ad avviluppare il bandolo della matassa, sbrogliato per il colpo di scena conclusivo, resta in superficie. Anziché andare in profondità togliendo al visibile per impreziosire l’invisibile. Il problema è che nei film con gli attori e le attrici, la scenografia, in possesso di una forza evocativa anche quando è scarna, i cromatismi della fotografia congiunti al segreto da scoprire, l’antiretorica è una risorsa preziosa per la potenza dell’invisibile; al contrario nei documentari servirebbe un Autore con la “A” maiuscola in cabina di regia per convertire le zone di freddezza in calore umanitario fornendo all’informazione culturale la forza significante dell’acume poetico. La curiosità in merito al motivo del furto consente comunque alla testimonianza audiovisiva di scongiurare il rischio della noia e di tenere desta l’attenzione degli spettatori sino alla fine. E non è poco. Tuttavia la componente appassionata della vicenda, con gli abbracci, le occhiate intenerite, l’alchimia, scandita dalla convergenza tra la voce fuori campo e le fisionomie riprese tanto nella stasi della meditazione quanto nell’energia del confronto, cade nell’impasse del referto algido. Incapace perciò di promuovere il rapporto dei tratti somatici con la luce, della menzogna con la verità venuta a galla, dell’introversione con l’estroversione, dell’alienazione con la cognizione. Benjamin Ree, da mestierante conscio del rischio di mostrare la corda invece di vincere lo stesso la virtù dell’omissione e fornire alla vulnerabilità dell’ex birbante la giusta cornice, prova a salvarsi in calcio d’angolo. Predicando con i soliloqui alla Terrence Malick associati ai pedinamenti zavattiniani, oramai targati Cartagine, il bisogno di maturare un dialogo critico con la propria persona. La pittrice e il ladro rimane un documentario asciutto ed emotivo. Che tiene col fiato sospeso. Ma sul versante mélo torna a casa con le pive nel sacco. Nell’inane sforzo di tradurre il ritmo scenico, affidato alla realtà colta di sorpresa, o quasi, in magistero narrativo.

 

 

Massimiliano Serriello