Il valore aggiunto dello stop motion e della geografia emozionale nell’ambito della componente del reale, costituita nel tema trattato nel documentario La prodigiosa trasformazione della classe operaia in stranieri diretto dal regista iracheno naturalizzato svizzero Samir Jamal Al Din, giunto sino al Cinema Beltrade di Milano dove sarà proiettato il 5 Giugno 2025 dopo uno stimolante percorso iniziato col successo di critica ottenuto al Festival di Locarno, giustifica l’investitura ad autore tout court dell’artefice d’un’opera rievocativa?
Rievocare le tribolazioni degli italiani emigrati in Svizzera nell’ottica del film di denuncia, sprovvisto però dell’elemento d’attrazione presso i fruitori dell’accattivante psicotecnica della recitazione, significa rinunciare ad alcune civetterie stilistiche ed espressive per conferire un ragguardevole rigore alla crudezza oggettiva delle tensioni storiche e sociali avvalorate dalle varie testimonianze. Con l’ennesima variazione sul tema della ricerca del tempo perduto caro a Proust sugli scudi.

La conoscenza intima dell’arduo tema trattato da Samir, che attraverso la palingenesi della mesta crudezza oggettiva nell’incanto soggettivo torna all’infanzia con lo sguardo sognante del bimbo ritratto dal disegno animato mentre guarda il paese adottivo ricolmo di neve, devia la convenzione della dura realtà colta dal vivo per mezzo dell’opportuno materiale d’archivio nei binari dell’evasione fantastica. L’interazione tra timbro favolistico e scrupolo cronologico, dispiegato mediante i ricordi di chi dovette pagare dazio al peso del pregiudizio dell’altero popolo elvetico nei confronti della cosiddetta infiltrazione straniera, rende certo più gradevole la visione agli occhi del pubblico dai gusti semplici. La cui soglia di sopportazione nei confronti di qualunque affresco d’impegno civile è ridotta ai minimi termini. Il punto cruciale risiede nel capire tuttavia se l’incisività del messaggio acquista ulteriore spessore secondo gli spettatori maggiormente scaltriti ed eruditi per merito tanto della libertà d’invenzione garantita dall’animazione in stop motion quanto del territorio, dapprincipio inospitale, eletto ad attante narrativo carico di significato. Il fermo-immagine, l’ovvio passaggio dal bianco e nero al colore, lo split screen, l’atmosfera di sospensione dalla sofferenza frammista al degrado delle baraccopoli in cui gli esuli provenienti dal Bel Paese devono arrabattarsi, rientrano nell’ordinaria amministrazione d’una sintesi tra informazione culturale ed elaborazione critica che cerca di catturare l’interesse d’ampie platee conciliando alla bell’e meglio stilemi diametralmente opposti tra loro. Ad alzare l’asticella provvede al contrario l’inusitata efficacia degli zoom ora in avanti ora all’indietro in una Zurigo tutta da scoprire. Oltre a trascendere qualsivoglia cornice cartolinesca, aliena alla capacità di approfondire i vari aspetti della realtà in questione sulla scorta altresì dell’attitudine della location a riverberare i densi ed emblematici corsi e ricorsi storici alla medesima stregua delle rimembranze audiovisive predisposte in questi frangenti, Samir intende soprattutto dire la sua. Da privilegiato rispetto alla nostra classe operaia. Costretta a sudare sette camicie per integrarsi in una Nazione assai refrattaria dinanzi all’incombenza di adottare degli stranieri. Specialmente se italiani.

L’esperienza maturata da Samir nelle vesti di adolescente borghese, comunque guardato di traverso, sui banchi della scuola pubblica risulta all’inizio troppo almanaccata. Specie nell’effigie dei coetanei xenofobi dai capelli biondi e dalla sensibilità non contemplata. Persuade di più in tal senso l’armoniosa fluidità del racconto franco di cerimonie ma zeppo d’aneddoti degni di nota. Legati ad alcuni alacri reportage d’epoca. Impreziositi dalla carezzevole ed empatica voce fuori campo dell’attore e doppiatore Lino Musella. Che concede allo stream of cosciousness di Samir una valenza di chiarificazione che non traligna mai nell’impasse della modalità esplicativa sprovvista di mistero. Il carattere misterioso della poesia connessa all’aura ascetica stenta comunque a prendere piede lì per lì con la giustapposizione degli squarci panteisti, conformi all’ordine naturale delle cose, insieme alle trasformazioni edilizie. Esasperate nel campo dell’immagine temporaneamente animata in stop motion dal gusto degli effetti. Che veleggiano in superficie, regredendo la chiave di lettura nell’immediatezza degli apologhi didascalici sui diritti negati, specie in confronto ai processi conoscitivi congiunti all’effigie sobria ed essenziale della Fremdenpolizei delegata a occuparsi dei controversi e sospirati visti. L’ostilità riservata all’emancipazione femminile, l’espulsione ordita a dispetto degli onesti operai della Penisola, decisi a mettere su famiglia all’estero col sudore della fronte, l’apartheid suggellato dalle infide campagne d’informazione e dalle altere tribune politiche svelano l’impaccio del carattere eccessivamente sbrigativo d’ogni timbro riassuntivo. Che c’entra come i cavoli a merenda col carattere misterioso dell’ambita poesia. Nemmeno sfiorato dal richiamo citazionistico che fa appello all’amore per la fabbrica dei sogni con la rievocazione dello spiccio film Tutte le domeniche mattina di Tutsi Hall, che mostra senza fronzoli od orpelli gli esiti funesti della cifra dell’odio dei fanatici svizzeri a scapito degli ospiti indesiderati, e del memorabile spaccato sociale ed eminentemente morale La classe operaia va in paradiso del compianto Elio Petri. D’altronde Samir è figlio d’un rifugiato comunista. Di conseguenza l’idea sancita dalla militanza politica inciampa quasi inesorabilmente nell’accidia degli ennesimi nani sulle spalle dei giganti.

A trascendere i limiti invece del partito preso, quantunque non a prescindere bensì sulla spinta dei vincoli di sangue, provvede il credito artistico concesso, al riparo dalle deleterie forme di snobismo ai danni del settore animato, comunque parallelo a quello degli attori in carne ed ossa, allorché il passaporto relativo alla tribolata naturalizzazione svizzera di Samir si trasforma in un tappeto volante che lascia con un palmo di naso i gendarmi del dissenso. Lo spettacolo programmatico e accigliato cede così definitivamente la ribalta alla materia della quale sono fatti i sogni d’ascendenza shakespeariana. E anche gli incubi ad occhi aperti di un’identità collettiva soggetta all’iniquo statuto dei lavoratori stagionali. Il parallelismo con le privazioni patite dall’attivista e scrittore camerunense Yvan Sagnet, in possesso d’una dialettica molto convincente, negli afflitti panni del raccoglitore di pomodori con l’approdo in Puglia, sotto l’egida dello sfruttamento perpetrato dal caporalato autoctono ai limiti dello schiavismo, coglie nel segno. Perché spinge a spremere le meningi in tutta onestà chi rifugge dal menzognero livellamento ugualitario ma al contempo considera la coerenza non una decenza bensì un valore inalienabile. Chiuderebbe il cerchio se un ulteriore documentario intenzionato ad amalgamare il ragguaglio socio-politico alla contemplazione elegiaca che trascende i limiti dell’approccio ideologico spingesse chiunque preferisca accorciare le gambe a chi le ha lunghe, anziché allungarle a chi le ha corte, lanciando strali contro chiunque appaia restio ad accogliere gli immigrati nei confini patrii, a riflettere in merito all’atroce accoglienza riservata per partito preso nei riguardi degli esuli istriani. Colpevoli di non aver rinnegato la loro italianità. Ma questo è un discorso che esula dal viaggio compiuto, con il pungolo dei vincoli di sangue, cementati altresì dalla madre nata in Svizzera, da Samir. La prodigiosa trasformazione della classe operaia in stranieri alternando la fase descrittiva alla suggestione evocativa finisce col congiungere il carattere di verità al carattere misterioso della poesia. Che, pure se non tiene proprio col fiato sospeso, ricava linfa dal crescente intervento del brivido d’un thriller sui generis connesso alle zone d’ombra segnate d’amaro. Illuminate dal carattere d’ingegno creativo che, insieme alla prerogativa dell’autenticità e dell’assoluta virtù di razionalizzare l’assurdo garantita dalla poesia, ghermisce i luoghi dell’imprescindibile memoria degli italiani in Svizzera. Rammentando, con un colpo al cerchio della critica intellettuale e l’altro alla botte dell’animazione che addolcisce il recupero reminescenziale, l’importanza degli eventi accaduti prima della nostra nascita.
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