A sette anni di distanza dal film d’esordio Il mondo fino in fondo, contraddistinto dall’audace tentativo – in parte anche piuttosto riuscito – di unire la capacità dell’intramontabile commedia all’italiana di far ridere amaramente e far riflettere ironicamente agli stilemi dell’empatico ed erudito cinema d’atmosfera, Alessandro Lunardelli torna dietro l’affascinante ma impegnativa macchina da presa con La regola d’oro. In uscita il 26 Febbraio 2021 su iTunes, Chili Tv e Amazon Direct.
La virtù di connettere gli stati d’animo e i modi di agire dei personaggi agli habitat, dove la valenza metaforizzante cara a Wim Wenders trova una stabile collocazione, sembra acquistare ora il piglio del ritrattista introspettivo. Scevro ormai dai vezzi manieristici ad appannaggio dei vanagloriosi stilisti visivi. Alieni alla forza significante di spazi ed elementi ambientali realmente efficienti nell’arco della narrazione. Al progresso sul versante della geografia emozionale, dispiegata cum grano salis in paesaggi brulli e aridi, rivissuti dal caporale Ettore – scampato a un sequestro in Libano – attraverso flashback stranianti ed empatici al tempo stesso, corrisponde però il regresso degli ingannevoli tòpoi mélo. I traumi legati al classico ritorno a casa del reduce, l’immancabile bisogno di annegare il dispiacere dovuto all’indocile spaesamento nell’alcol, la pressione esercitata dal circo mediatico, intento ad anteporre l’inane sensazionalismo alla deontologia dell’informazione, anziché trarre linfa dalle pieghe bizzarre ed ergo umane connesse alle mire opportuniste degli autori televisivi decisi ad accrescere l’audience del loro programma manipolando il soldato giù di corda, esacerbano i sentimenti ora d’imbarazzo ora di rabbia. Con il rischio di cadere nel ridicolo involontario invece di satireggiare, attingendo a Quinto potere di Sidney Lumet e Dentro la notizia di James L. Brooks, l’eterno conflitto tra apparenza ed essenza.
Mentre il dietro le quinte del piccolo schermo paga dazio al carattere sbrigativo dell’infruttifero bozzetto dei vari déjà-vù, ben distanti dalla densa rielaborazione degli alacri allievi in grado di superare i maestri, le sequenze al buio, sia dentro l’abitazione romana, che fatica a divenire un propizio riparo dai continui incubi a occhi aperti, sia nel tugurio, con gli implacabili jihadisti di guardia alla porta, vanno in profondità. L’efficacia dei match-cut sonori e visivi, abili a sottolineare gli strascichi di una prigionia pure mentale accostando luci sinistre ed empiti toccanti, crea quindi diverse aspettative sul prosieguo. A quel punto, viceversa, prende piede la crisi dell’affabulatore Massimo. Schiavo delle circostanze, dei fugaci profili di Venere, dei vizi, delle false promesse, spiccicate a destra e a manca, dell’incomunicabilità in famiglia, dell’assenza di etica. Nonostante l’indubbia disinvoltura mimica di Edoardo Pesce, che passa dai ruoli di troglodita laconico alle vesti del logorroico prosatore di turno senza avvertire alcun disagio, il personaggio rientra nei soliti schemi del vano psicologismo. Ad alzare ancora l’asticella dovrebbe provvedere in parallelo lo scandaglio tout court del militare a riposo. Desideroso di vincere le delusioni, di uscire dalla morsa dell’atroce introversione e di ritrovare il sorriso. Al contrario sono i superficiali motivi di fianco, come l’intervista a un ministro con la passione per l’opera lirica, a compromettere la riuscita complessiva.
La schiettezza dell’ispirazione di partenza in fase di sceneggiatura, germogliata dalla consapevolezza che l’arte dell’affabulazione e della sintesi espressiva dovuta alla voluttà di ghermire l’interesse del pubblico non c’entra un bel nulla con la fragranza dell’opportuna buona fede, necessaria ad aggirare lo scoglio dello scetticismo, si perde in rivoli superflui. Comportati dalle ordinarie punture di spillo nel finale alle fatue gare di bravura, col televoto estraneo al candore degli artisti al tramonto, ai dilemmi sotterranei, costretti a cedere la ribalta all’impaccio con la folla, ai riottosi doveri domestici, ai palchi fasciati d’ombre intimidatorie. La location del Teatro antico di Taormina si presta bene a catalizzare i palpiti, i fremiti, i tormenti, i brividi della verità spirituale. Contraria al materialismo dei premi consegnati per catturare l’ingenuità delle masse. Purtroppo l’ambìta funzione diegetica ed evocativa del luogo magico, che nella semioscurità ospita il mesto rovescio della medaglia, è ridotta a mero sfondo dall’insalubre culto del singhiozzo esistenziale. Simone Liberati (Ettore) ed Edoardo Pesce confermano l’intesa stabilita in Cuori puri di Roberto De Paolis portando alla ribalta gli ammaestramenti, sacrosanti e raccapriccianti, dell’università della strada. In ogni caso La regola d’oro, nel voler denunciare l’egemonia del fittizio clamore collettivo sui semitoni del giudizio privato, perde per strada il prezioso spunto dei pasticci affettivi, costeggia deliri febbrili, predica al vento e mostra la corda.
Massimiliano Serriello
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