Riallacciandosi ai ieratici ed estrosi maestri del cinema nordico, abituati a fornire un ritratto assai penetrante dell’alfabetismo sentimentale svilito dall’impasse dell’incomunicabilità che esacerba qualsivoglia crisi di coppia, l’esordiente regista norvegese Lilja Ingolfsdottir parte da una prospettiva peculiare nel mélo introspettivo La solitudine dei non amati.
L’indubbia conoscenza intima dell’argomento in questione emerge subito insieme ad alcuni pleonastici inchini nei confronti d’inobliabili numi tutelari, come l’immagine allo specchio d’ascendenza bergmaniana, anche nell’uso del flashback, attinto al pionieristico guru Victor Sjöstrom, che riassume attraverso il breve ma intenso, se non epidermico, salto cronologico il significativo passaggio dallo sconforto dell’inquieta Maria per il matrimonio andato in fumo col padre dei suoi figlioletti al redivivo batticuore avvertito nell’ambito d’una festa scacciapensieri per l’ammiccante marpione Sigmund.

La padronanza del diaframma dell’obiettivo, che consente per mezzo della perspicace correzione di fuoco da un soggetto all’altro d’illustrare nell’apposita dinamica spaziale al chiuso il colpo di fulmine in grado di sancire l’egemonia del piano attivo su quello precedentemente di passività, svela quindi in filigrana l’altalena degli stati d’animo dell’avventizia autrice. Che sembra voler trascendere comunque la pigrizia delle idee prese in prestito riverberando l’esperienza provata sulla sua pelle tramite un fugace eppur denso caleidoscopio poetico dei lampi d’intimo accordo. Quando l’affinità, profondamente sentita, che brilla di luce propria in virtù dell’accortezza di veicolare la tecnica al servizio d’un punto di vista personale concernente l’ovvio carattere celere ed effimero dell’inebriante senso di magia legato all’intesa momentanea, cede la ribalta al diktat dei disaccordi, tomba d’ogni illusione, l’arte di osservare ed esplorare l’umanità, soggetta all’angoscia che spesso abbranca le relazioni affettive al capolinea, si va man mano affievolendo. A differenza dei capolavori del Free Cinema britannico, tipo Frenesia del piacere di Jack Clayton, l’intoppo dell’energia muliebre, mandata in tilt dal dispiacere per l’ennesima famiglia allargata passata in cavalleria, dopo l’ingannevole idillio iniziale, tradisce la penuria sia dell’opportuna ed evocativa frattura di tono, dietro cui s’annida il parco di emozioni in gioco, sia della destrezza di esibire l’abrutimento del tran tran giornaliero. Gli abbracci lì per lì implorati, poi negati, sulla base della rivoluzione dell’indicativa consecutio temporum, l’ansia di risollevarsi, la terapia affrontata in tandem con l’attenta professionista consapevole di dover lenire solo ed esclusivamente l’automaltrattamento dell’infelice Maria, piantata dall’algido partner perennemente in viaggio, refrattario, a discapito dell’adagio latino “nomen omen”, tanto a mettere sul serio radici, nonostante la sopraggiunta paternità, quanto ad affrontare l’arduo percorso dell’analisi, prendono, a ben guardare, alla lontana la spinosa questione dei cuori infranti nel focolare domestico.

Anziché pedinarla da vicino per restituire la verità dei nervi a pezzi, connessi agli affetti in crisi, sulla scorta dell’idonea tastiera d’impliciti ed espliciti timbri comportamentisti. Congiunti viceversa al processo di degradazione morale. Incredulito dal dissolvimento del confortante confine di reciproca comprensione, oltre che d’attrazione, tra l’abbattuta Maria e l’insofferente Sigmund. Il volto, deformato per l’ormai indefesso spasimo di aver perso soprattutto se stessa col partner globe trotter dal nome fuorviante, dovrebbe rendere ancor più degna di rilievo ed espressiva, invece che irrimediabilmente tediosa, la prevaricazione esercitata dal mix di autocommiserazione e masochismo ai danni della sana consapevolezza che anche la mesta conclusione d’una relazione dapprincipio lieta consente di crescere ed evolversi. L’effetto viceversa soporifero d’un elemento contenutistico chiave nell’economia della trama mostra la corda dell’impianto, stringi stringi, troppo didascalico sul versante formale. Specie per innescare proficue svolte narrative. Lungi dal nascondere sotto l’inane manto del dinamismo sui generis dell’azione l’assenza dell’irrinunciabile contemplazione. Nell’avara logica dell’insipido spettacolino melenso fornito dalla caratterizzazione convenzionale di chi in amore insegue e di chi scappa, vince chi fugge. In tal modo la poesia garantita dall’aura contemplativa introduttiva riguardante l’intesa dal fiato breve è soppiantata dall’infecondo poeticismo che cementa l’amore rigettato.

Aggiungendo poesia alla poesia, nella flebile speranza di spacciare per incisivo ed elegiaco lo scarso spessore dei meccanici siparietti lacrimevoli, Lijia Ingolfsdottir si butta avanti per non cadere indietro. Anche se una volta giunto ugualmente il momento di ripercorre col sostegno della solerte terapista le impuntature che hanno fatto scattare la molla del diniego al maschio alfa, stanco dei continui tira e molla dettati dall’ancestrale insicurezza, i gesti sovraccarichi sono rimpiazzati dalla programmatica meditazione. La prevalenza in zona Cesarini di un’aura ascetica, sia pure aliena ai meandri scandagliati dagli illustri antesignani abituati ad andare oltre i vetusti stilemi conformi alla perlustrazione degli spazi invasi dai pretestuosi legami di lealtà, alza indubbiamente l’asticella. Ma risulta, a ben vedere, un infertile sparo nel buio. La statura d’attrice di Helga Guren appare appunto modesta ed ergo l’aderenza alla voluttà di Maria nel ristrutturare gli afflitti pensieri, allo scopo di eludere nelle ultime battute l’atroce ottica del disturbo compulsivo e ossessivo, non basta a esibire in maniera convincente la conquista della dignità necessaria a sottrarre l’addio a ulteriori lagne. Il resto del cast svolge un mero compitino. Distante anni luce dalle vibranti ed eterogenee performance dei fuoriclasse della psicotecnica. Che s’inventano guizzi colmi d’ingegno per garantire linfa ai tarli dell’ardore in cerca di decoro. La solitudine dei non amati, al contrario, abbandona la fragranza della sincerità, riscontrabile nello slancio introduttivo dettato dalla voglia di mettersi in gioco della debuttante Ingolfsdottir ed esporre un’idea avvertita sulla tematica trattata, e condensa nel prosieguo l’ennesima ridda di spasimi quotidiani, di battute poco calzanti, di fasi molto calanti, di sbadigli incalzanti.
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