La Stanza di Stefano Lodovichi

Il lockdown, se da una parte ha creato non poco scompiglio in tutti i settori possibili ed immaginabili, dall’altra ha portato gli artisti ad interiorizzare le proprie idee, riuscendo a tirare fuori dei piccoli gioielli, spesso realizzati tra 4 mura, ma con una potenza evocativa ed una forza drammatica non indifferenti. In ambito cinematografico, ad esempio, mi vengono in mente Sībĭlum di Luigi Scarpa e Nati Morti di Alex Visani, entrambi girati proprio durante il lockdown per covid 19. Un altro progetto che scaturisce da questo isolamento forzato è quello del regista toscano Stefano Lodovichi, La Stanza, classe 2021, girato nell’arco di due settimane proprio durante l’epoca del lockdown. Tutte le riprese si sono svolte all’interno di una villa, ed il film potrebbe essere definito un dramma familiare da 3/4 personaggi, quasi come si stesse assistendo ad una rappresentazione teatrale in cui il portone della casa rappresenta la quinta di destra e le porte delle varie stanze la quinta di sinistra, rendendo la villa un enorme palcoscenico dove gli attori mettono in scena il loro psicodramma. Ma La Stanza non è certamente solo un dramma; è anche qualcosa di molto simile a una Ghost Story, anche se non sono sicura di poterlo definire tale. Una cosa è certa: ha un piede nel paranormale, e che questo poi serva ad esprimere un concetto sociale sempre attuale, ciò tuttavia non esonera il film da poter a pieno titolo entrare nel novero degli horror. E se non fa saltare sulla poltroncina, La Stanza riesce comunque a creare angoscia, a portarci in un clima di isolamento forzato, di disperazione, dove irrompe un elemento di disturbo del quale non si capiscono le finalità, ma che è chiaro fin da subito non essere completamente “normale”. Qualcuno dei 4 protagonisti non è al suo posto, non dovrebbe essere lì…ma chi? O forse tutti e 4? Si può parlare di una Ghost Story al contrario? I fantasmi possono andare nel passato arrivando dal presente o dal futuro, invertendo quindi l’arco temporale a cui ci hanno abituati? I vivi ed i morti possono entrare in contatto? Quanto si potrebbe modificare del nostro passato, se si riuscisse a tornare indietro? Sarebbe possibile modificare il destino nostro e quello degli altri? Queste e molte altre domande ci porrà Stefano Lodovichi, e a noi il compito di interpretarle e dare la nostra risposta che scaturisce dalle nostre suggestioni personali con le quali ci poniamo di fronte al film.

Stella sta per suicidarsi gettandosi dalla finestra della sua stanza, con indosso il suo abito da sposa, quando qualcuno suona insistentemente alla sua porta. La donna apre e si trova davanti un uomo dal volto cordiale e sorridente, Giulio, il quale la informa di aver prenotato su internet la camera che lei affitta all’interno della sua casa. Stella rimane allibita e dice all’uomo che è da un sacco che lei non affitta più, ma alla fine, impietosita dal maltempo che imperversa fuori e incuriosita dal fatto che Giulio dice di conoscere suo marito Sandro, decide comunque di ospitare l’uomo. Egli comincerà fin da subito ad avere atteggiamenti strani e curiosi, sovente inquietanti, comportandosi come se fosse a casa sua e trattando la donna con estrema familiarità, tanto che la stessa se ne sentirà più volte infastidita. Il dramma inizierà, tuttavia, quando a casa giungerà Sandro, marito di Stella, che però non sta più con lei e si è costruito un’altra famiglia: Giulio legherà entrambi i coniugi a due sedie, ed intorno al tavolo comincerà a far venire fuori, pian piano, un’amara e assolutamente incredibile verità.

L’idea per La Stanza nasce a Lodovichi dal desiderio di girare un documentario sul fenomeno di origine giapponese degli hikkomori, ovvero giovani che si sottopongono ad una volontaria esclusione sociale per ribellarsi alla cultura tradizionale ed all’intero apparato sociale, recludendosi nella propria stanza senza uscirne per alcun motivo. Lodovichi passa dall’idea del documentario a quella del film di finzione, trattando l’argomento in modo da individuare le ragioni di queste scelte nei drammi e negli stimoli negativi vissuti all’interno della propria famiglia. La sceneggiatura parte quindi da un dramma familiare, da una donna con un bimbo piccolo abbandonata dall’uomo che ama, dal dolore grande che questa perdita può causare in entrambi, madre e figlio, e poi si inerpica nel fantastico, nell’immaginario, nel thrilling, sfiorando con classe ed eleganza l’Home Invasion e la Ghost Story, ma senza mai lasciarsi ingabbiare in un sottogenere troppo ben definito.

Perfetti e incredibilmente calati nella parte i tre protagonisti, aiutati forse dal clima di isolamento imposto dal governo durante il lockdown: vivere due settimane a stretto contatto sotto lo stesso tetto non può che aver aiutato a ricreare un clima simile, di prigionia dalla quale non si può evadere nemmeno volendo, anche sullo schermo. Splendida, ed unica, interprete femminile, la moglie e musa del regista, l’attrice bresciana Camilla Filippi, che ha esordito al cinema nel 2000 diretta nientemeno che da Matteo Garrone; la Filippi ci regala un’interpretazione intensa e sofferta fin dal primo frame del film, che la vede vestita da sposa, scalza, dimessa e col trucco sfatto dal troppo pianto, sul cornicione della sua finestra pronta a gettarsi nel vuoto sotto una scrosciante tempesta. Questo incipit, di grande impatto visivo, coadiuvato dalla sulfurea fotografia di Timoty Aliprandi e dai bei movimenti registici di Lodovichi, che ci porta ad esplorare la grande casa, luminosa e cupa allo stesso tempo, ci trasporta subito in un’atmosfera fiabesca, che ha tanto delle suggestioni magiche di Guillermo del Toro, penso ad esempio ad un lavoro quale Crimson Peak, in cui all’interno del misterioso castello si respira un’aria di mistero molto simile a quella che respiriamo qui, coi colori accesi della dimora che stridono in un evidente contrasto coi tetri esterni. Accanto a Camilla Filippi, nei panni del marito Sandro, troviamo l’attore romano, ora più che mai sulla cresta dell’onda, Edoardo Pesce, vincitore del David di Donatello per la sua interpretazione del pugile Simone nel pluripremiato Dogman di Matteo Garrone del 2019. Se Stella è una donna debole, ferita al punto da non tenere più alla propria vita né a quella del figlio, ancora innamorata del marito, Sandro è invece uno sbruffone, un gradasso, che non è in grado di tenere a bada i suoi istinti e le sue pulsioni, assolutamente indifferente al dolore che provoca alla sua famiglia. Tanto profonda lei quanto leggero lui. E poi c’è l’altro, Giulio, interpretato dall’attore siciliano Guido Caprino, il cui volto mi ha ricordato quello, altrettanto affascinate, di Jeff Goldblum, iconico protagonista de La Mosca carpenteriana. Caprino presta le sue fattezze al personaggio più criptico ed enigmatico del film, Giulio, che nasconde dei segreti a cui Stella e Sandro faranno fatica a credere, finchè non dovranno arrendersi all’evidenza, per quanto spaventosa che sia. Cosa si nasconde dietro il sorriso gioviale e gli occhi penetranti di Giulio?

Se la colonna sonora originale di Giorgio Giampà non risulta particolarmente incisiva, senz’altro è degna di nota la scena in cui Giulio tenta di ballare con Stella dopo aver lavato i piatti in cui hanno pranzato, accompagnata dalle note di un classico della musica leggera italiana, Stella Stai di Umberto Tozzi, che richiama alla mente scene simili costruite sulle note della nostra musica tricolore, come il viaggio in auto delle due protagoniste di Alta Tensione di Alexandre Aja, che cantano a squarciagola Sarà perché ti amo dei Ricchi e Poveri, o la scena destabilizzante del film Premio Oscar 2020 Parasite di Bong Joon ho, sulle note di In Ginocchio da Te di Gianni Morandi.

La Stanza è uno di quei film complessi, stratificati, il cui soggetto, lo svolgimento della trama ed il finale si prestano a molteplici interpretazioni, tutte ugualmente valide e tutte giustificabili ed incontrovertibili, pertanto la visione e la lettura dell’opera divengono squisitamente soggettive e permettono ad ognuno di valutare il film in maniera personale, secondo i propri codici di pensiero ed il proprio vissuto. Personalmente amo davvero tanto quando un regista riesce a rendere credibile un’opera che non ha un finale spiattellato ma solo suggerito, e Lodovichi ci riesce davvero alla perfezione, facendo incastrare bene tutti i pezzi senza creare mai particolari criticità. Non so se sia giusto definirlo thriller psicologico, perché le opere così complesse non rientrano mai bene in un genere preciso, ma direi che in mancanza di meglio io lo definirei mistery drama. Il linguaggio è quello del Genere, ma il film tratta tematiche ben più profonde di un You’re Next o un The Woman in Black, tanto per citare due dei sottogeneri che fanno capolino durante la visione, l’Home Invasion e la Ghost Story, appunto. A Lodovichi non interessa tanto spaventare, questo è evidente, ma tratteggiare l’aspetto psicologico delle relazioni umane, qui all’interno di un ristretto nucleo familiare in cui irrompe all’improvviso uno sconosciuto…o almeno uno che pare tale… Questa operazione era stata alla base anche del precedente lavoro del regista, In Fondo al Bosco, classe 2015, che però era ammantato da una patina di pessimismo maggiore rispetto a quanto non ce ne sia in La Stanza.

Qui il tempo è completamente sfalsato, non si capisce se va avanti o indietro, ma non è una roba alla The Others come potrebbe sembrare, è qualcosa di più controverso, che a tratti nemmeno lo stesso  protagonista riesce a spiegarsi. Interessante è quindi la dialettica cinematografica dove passato, presente e futuro si intrecciano e si confondono, abilmente plasmata da Lodovichi e dalla sua sceneggiatura. Egli sembra volerci ricordare che ogni nostra decisione ha sempre delle conseguenze, non  solo su noi stessi, ma anche sugli altri, e che quindi si deve essere pronti a pagarne il fio. Bella anche la caratterizzazione dark che viene data alla casa, vecchia ma non fatiscente, buia e luminosa allo stesso tempo, ed il regista spiega come nell’arredarla si sia ispirato, insieme allo scenografo, all’art nouveau, rendendola quasi “un personaggio che dorme da tantissimo tempo, un vecchio coperto di rughe, stinto dagli anni e dai dolori del tempo, che gode di una bellezza sfiorita, passata, aggredita dalle scosse della vita che lasciano segni e cicatrici dentro e fuori”. Un po’ come i segni e le cicatrici che solcano sia Giulio che Stella, nell’uno più evidenti, nell’altra forse meno, ma in entrambi, sicuramente, profonde e capaci di arrivare fino al cuore.

https://www.imdb.com/title/tt13315340/

Ilaria Monfardini