Mutando totalmente segno rispetto al film d’esordio Baby Phone, faceto apologo sul vero e il falso in grado di approfondire sulla scorta dei risvolti burleschi sia le cosiddette bugie bianche volte ad anteporre la necessità di difendere i consorzi intimi dalle verità troppo brutali sia la schiettezza necessaria a impedire alle nocive identità alternative innescate dal fiume in piena delle sistematiche frottole di entrare in un circolo vizioso, lo smanioso regista transalpino Olivier Casas bracca l’elezione ad autore tout court con La storia di Patrice e Michel.

L’emblematico passaggio dagli stilemi dell’arguta commedia di situazione, che preserva l’insito bisogno di mentire in determinate circostanze da un’accezione interamente negativa, tagliata con l’accetta dell’avventizio mestierante, all’avvertita commistione di generi, avvezza ad annettere i topòi dell’errabondo survival movie a quelli dell’intenso mélo familiare ed esistenziale, comporta una sorta di nobilitazione della previa cifra stilistica.

In modo da unire l’opportuna scrittura per immagini tanto all’aura ascetica ed ermetica degli affreschi panteistici, imperniati sull’interazione tra habitat ed esseri umani, senza pagar dazio all’infertile abitudine a veleggiare nella mera superficie dei banali romanzi d’avventura, quanto alla ricchezza di prospettive dell’ampia requisitoria concernente le fonti di calore antropico e al contempo d’inestricabili dissapori sorti ben distanti dal conforto del focolare. La questione dei figli smarriti, già nati fuori dal matrimonio, al termine dell’ondata di morte dovuta alla seconda guerra mondiale, costituisce un significativo trauma. Scandagliato dal rapporto tra passato e presente che pone a confronto, attraverso l’abile montaggio congiunto all’idoneo ricorso al match-cut visivo ed evocativo, l’infanzia con la maturità. Rappresentata dalle maschere innocenti ma tese sino allo spasimo dei due fratelli, vissuti a contatto con l’ordine naturale delle cose allo stato quasi brado quando erano ancora bambini, solcati in seguito da profonde ed epidermiche rughe d’espressione. Il mix d’interni rassicuranti ed esterni stranianti innesca spesso pleonastiche riprese di profilo dei vari personaggi, l’indegna madre sugli scudi, piuttosto velleitarie. A differenza della verve stuzzicante esibita in precedenza dietro la macchina da presa, in mezzo ad alcuni guizzi satirici intenti a confondere le idee secondo i canoni della farsa intelligente e alla modernità d’accenti messa a punto dal compiuto senso dell’ironia, la necessità d’immaginare un mondo migliore per mezzo della ricerca dell’alterità, ovvero la diversità destinata a diventare man mano una sorta d’affinità elettiva, cade nell’insipienza dell’enfasi di maniera. Sin dall’incipit la pioggia scrosciante, l’orrorifico cupio dissolvi a braccetto con l’ingannevole amor vitae, il suicidio per impiccagione d’un fragile adulto, la corsa a perdifiato nei campi limitrofi, lo shock, l’acuta sensazione di sbigottimento mettono le carte in tavola evidenziando l’assoluta penuria d’uno scavo introspettivo ad hoc.

Oltretutto l’assidua voice over di Michel, circa trent’anni dopo, intento a svolgere ad alti livelli l’impegnativa professione dell’architetto ricavando linfa dalla capacità di conservazione appresa appieno in tenera età, pregiudica con le mere modalità esplicative gli eloquenti silenzi connessi ai cortocircuiti d’inaspettata bellezza imperante nella foresta dove la personificazione costante della Minaccia ha comunque il sopravvento. Senza mai seguire con degli alacri carrelli perlustrativi i tortuosi tragitti del territorio privo di rotte convenzionali e d’una psicologia, sotto sotto, piuttosto raccogliticcia. Manifestatasi tramite eventi romanzeschi. Anziché per mezzo della sempiterna poesia del quotidiano cara agli alfieri dell’erudito ed emozionante neorealismo. Il poeticismo di facciata prevale di conseguenza sull’atmosfera riflessiva della poesia. L’inane illustrazione scalza quindi l’irrinunciabile esplorazione. Riuscita decisamente meglio ex ante col supporto decisivo di notazioni agrodolci ed esilaranti. Sostituite in un contesto agli antipodi dalla banale alternanza di suoni diegetici ed extradiegetici, con le improvvide impennate ree di svilire il leitmotiv degli inquietanti animali notturni, e dai modi pseudo-documentaristici. Non abbastanza sobri ed essenziali da permettere alla crudezza oggettiva di scongiurare le secche della retorica legate al carattere estremo delle peripezie. Affrontate di nuovo da Michel, partendo da Parigi in direzione dei boschi remoti del Canada, pur di condividerle ancora col consanguineo Patrice. Un prodigo dottore attanagliato nondimeno dalla sfortuna di non poter avere figli assieme all’amabile ed eterea compagna. L’assenza dell’assennato carattere d’autenticità, chiamato ad avviare la sospensione dell’incredulità nel ritorno ex post presso gli sperduti anfratti per rinvigorire l’intesa slabbratasi step by step, trascina nella noia di piombo gli spettatori avvinti invece dalle opere saldamente ancorate alla virtù dei luoghi eletti ad attanti narrativi di riverberare gli stati d’animo in subbuglio col cuore in gola.

Il fascino dell’irrazionale cede così spazio agli svenevoli trapassi di facile comprensione. Di sviluppi imprevisti non si intravede perciò nemmeno l’ombra. Il confronto dei giochi fisionomici di oggi e di ieri, con la consapevolezza in bell’evidenza di chi sosta a buon diritto sul crinale della meritata saggezza, trascina il quadro storico-allegorico, appena abbozzato, in una dinamica interiore dal fiato corto. Le azioni venatorie, delineate dall’occhio nel mirino che stimola il ricordo dei rimedi ai crescenti pericoli apposti a dispetto delle poche primavere, dinanzi a un inverno agghiacciante, stentano ad assorbire nell’approssimativo ritratto dei nodi da sciogliere per tornare alla civiltà lo spettro dello spaesamento dovuto alla calligrafica effigie della selvaggia boscaglia. In cui occorre affrontare se stessi. E da lì, si sa, non si scappa. Tirato, al contrario, per la giacca dall’infeconda tentazione di compiere ulteriori soste nei luoghi adatti ad accrescere l’impegno morale, assurto a degno antidoto contro ogni trauma insanabile, Olivier Casas amalgama il ricatto figurativo a quello sentimentale. Con il risultato di affrettare la funzione consolatoria dell’epilogo. Nonostante la bravura recitativa di Mathieu Kassovitz, nel ruolo del medico laureatosi pure nell’università della strada cinta da alberi secolari che si rinfranca in zona Cesarini gettando le basi per riprodursi, l’ovvia mistura di spaventi ed estasi mandata a effetto da La storia di Patrice e Michel non trascende il tenue valore informativo della denuncia civile rimarcata nelle pedisseque didascalie conclusive. La faccia da pesce lesso dell’involuto Yvan Attal, con buona pace dell’apprezzabile corrispondenza con l’architetto condizionato dal dedalo di vincoli ancestrali ed echi stranianti, chiude mestamente il cerchio. Premendo l’inutile pedale del cinema sensazionalistico che frena una carriera iniziata all’insegna dell’egemonia della perspicace canzonatura sulle ataviche fratture avvenute in uno scenario da brividi affrontati col petto in fuori.


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