La terra dei figli: dalla graphic novel di Gipi

Adattare alla scrittura per immagini del grande schermo una graphic novel come La terra dei figli, nata dall’estro dell’illustratore e romanziere Gian Alfonso Pacinotti detto Gipi che trasporta i lettori in un’atmosfera post-apocalittica contraddistinta dall’egemonia della lotta per la sopravvivenza sull’alfabetismo sentimentale, significa saper congiungere i motivi figurativi a quelli introspettivi ed evocativi.

L’eclettico regista Claudio Cupellini raccoglie l’ardua sfida passando dal rigoroso ed espressivo tratteggio in bianco e nero dell’appassionante romanzo di fantascienza, ben lungi dal concedere alcunché alla deleteria enfasi sensazionalistica, ad avvolgenti dinamiche cromatiche. Congegnate dall’alacre fotografia e approfondite dall’apertura ad arte del diaframma.

I giochi di luci e ombre, la profondità di campo, certe tinte estremamente nitide, l’aura contemplativa dei rilievi pittorici, il dinamismo dell’azione congiunto all’uso del deep focus non rientrano nell’ordinaria fascinazione delle tecniche impersonali. Rispetto ad Alaska, alla serie televisiva Gomorra e all’asciutto ed epidermico mélo Una vita tranquilla, in cui Cupellini era riuscito ad appaiare la crudezza oggettiva al chimerico bisogno di calore umano, l’arguta lunghezza focale svolge un ruolo ancor più determinante. Giacché investito a veicolare lo sguardo del pubblico in un viaggio di formazione sorretto dagli affetti remoti nelle ragioni d’incertezza, d’inquietudine, d’implicita speranza, d’immane rinascita che antepongono all’estetica irrazionalista, incentrata soprattutto sul predominio dei coefficienti spettacolari, lo choc conoscitivo frammisto alla dimensione mitopoietica della geografia emozionale. Al contrario degli anfratti parigini, dei carceri d’oltralpe, delle strade di Milano, dell’hinterland partenopeo, dell’interazione tra interni ed esterni nel cuore della Germania, sulla scorta dell’influenza noir, il territorio eletto ora a location svolge una funzione diegetica fondamentale. Tanto quanto quella dei personaggi. Un padre, impersonato dal bravissimo attore teatrale Paolo Pierobon, guardingo, combattuto dalla voglia di esternare tenerezza al sangue del suo sangue, venuto al mondo quando gli impietosi veleni sparsi a raggiera sull’intero creato avevano già convertito la società civile in un disadorno ed empio scenario funereo, deciso ad addestrarlo alla reattività. In modo da restituire pan per focaccia a qualunque predone appostato dopo il confine sancito da una strega dall’animo onesto.

Il figlio, ribelle, grezzo, nervoso, indeciso nei confronti del genitore, intento a redigere in un diario i propri pensieri, al riparo dal cannibalismo, dal termometro della paura, dall’anticamera dell’angosciosa morte, risoluto invece di fronte alle spacconate del raccapricciante vicino Aringo. L’effigie dei corsi d’acqua, delle onnipresenti mosche, della vegetazione ridotta al lumicino, dell’instabile palafitta, dove la fame picchia duro e trovare qualcosa da mettere sotto i denti diventa un’impresa, svolge un ruolo attivo nell’ambito del racconto. L’immersione dell’ordine naturale delle cose sconvolto dall’ignoranza, dalla cecità, ritratta negli occhi di vetro della megera bonaria alla quale Valeria Golino conferisce uno slancio recitativo fuori del comune, dalle leggi tribali, tomba delle illusioni d’ogni anima bella, squaderna nel sottosuolo dei gesti l’alone di mistero dei thriller meditabondi. L’allucinazione solenne, affidata ad accenti liricizzanti ed esoterici, esacerbati dalla colonna sonora che manda a gambe all’aria l’antiretorica degli opportuni semitoni, persuade invece molto meno. Le cadenze lombarde dei fratelli contadini situati nella sponda remota del lago, alcune modalità esplicative dei dialoghi, i tratti convenzionali della fiaba dark, aliena alla forza significante degli apologhi febbrili sugli spazi contesi in miseria, con l’innesto della musica percussiva d’origine africana in grado di trascendere la mera tensione verso l’assoluto, non restituiscono la sostanza degli eloquenti silenzi, delle pronunce gutturali, delle frasi smozzicate. Rimaste in sospeso. Mentre l’egida mefistofelica mostra man mano l’empio volto. Anticipato dall’angolazione dall’alto che espone i miserabili resti dell’esistenza precedente.

L’apporto del trucco, nel ritrarre le maschere d’odio, d’ipocrisia, di ribrezzo, al pari della psicotecnica recitativa impegnata ad afferrare lo stupore orrorifico custodito nel fragoroso tonfo dell’amor vitae, esibisce una resa d’alta scuola. Gli scaltri e fluidi carrelli all’indietro tengono sulla corda persino le platee dure ad avvistare nell’effimero processo d’identificazione l’archetipo eroico del sospirato riscatto. Ma sono gli empatici sbalzi della camera a mano ad animare davvero l’assunto, nello scontro decisivo con gli aguzzini colpevoli anche di chiudere in cella una creatura muliebre, liberata dal ragazzo in odore di redenzione, sopperendo alla velleità d’inserire nelle prevedibili inquadrature grandangolari una valida alternativa alla potenza dell’invisibile. Quando, nel finale, l’immusonito carceriere interpretato da un Valerio Mastandrea da affissione, grazie alla prova immedesimativa profondamente sentita, anziché intopparsi nel patetismo o peggio nel ridicolo involontario dei respiri cavernosi, privilegia la sensibilità all’indifferenza, la farfalla esce dal bozzolo. La scena-madre, giunta al termine d’uno sviluppo drammaturgico costellato d’infiniti ribrezzi, di labirinti allegorici e puntate nell’onirico, con la sequenza subacquea che sa di programmatico, chiude il cerchio all’insita parabola sulla comunicazione, trascende gli spunti animisti, svela l’arcano ed emana, dopo le gelide grida, la carica d’intima fiducia nell’avvenire. La terra dei figli costeggia solo l’epos furente degli autori visionari per poi vincere le lune storte, i ghigni, l’angoscia, gli interrogativi insoluti con una linearità toccante e il polso del filmmaker di rango. Che unisce alla crescita intellettuale l’incalzante suspense, tesa allo spasimo, e l’equanime rivincita della coscienza in chiave romantica.

 

 

Massimiliano Serriello