Ci sono autori che crescono a vista d’occhio, aguzzando step by step la propria cifra stilistica, e altri, al contrario, inclini ad applicare in pieno l’ormai risaputa formula, a cui debbono il successo di critica, col risultato d’imprimere alla pur distintiva scrittura per immagini l’alone, piuttosto limitante, del déjà vu.

In quale categoria rientra l’esperto autore statunitense Wes Anderson, avvezzo da quasi un trentennio ad appaiare dietro la stimolante macchina da presa l’aura contemplativa ed estraniante della poesia al valore terapeutico dell’umorismo congiunto alla sottocultura hipster dei giovani bohemien attratti dalle bizzarrie delle opere caricaturali per bambini, ne La trama fenicia? E soprattutto come sarà accolta l’ultima fatica nella settantottesima edizione del festival di Cannes dalla giuria presieduta da Juliette Binoche?

L’obiettivo d’acciuffare l’ambita Palma d’Oro, in attesa di riuscire a vincere l’Oscar sfuggitogli con l’heist movie Grand Budapest Hotel dieci anni or sono, passa nell’incipit attraverso l’indubbia capacità di alzare la soglia dell’attenzione d’ampie platee per mezzo dell’impassibilità sardonica dell’eccentrico tycoon Zsa-zsa Korda in prossimità del fulmineo attentato subìto a bordo del principesco aereo. Che precipita in un campo di pannocchie. Lasciando indifferente l’incerottato magnate. Scampato al sesto incidente funereo. La tecnica di ripresa dello scaltro Wes Anderson si sbizzarrisce così nei corridoi improvvisati nell’approdo bucolico, nei consueti zoom in avanti, negli stranianti piani ravvicinati, nella buffa ed evocativa gamma cromatica, conforme, oltre che al senso estetico anticonformista dell’abbigliamento, anche, se non specialmente, al limbo dell’infanzia. La sospensione onirica, che converte a tratti il film a colori al bianco e nero col protagonista sul banco degli imputati tra le nuvole nel mezzo d’un’esperienza ai confini della morte alleggerita secondo copione dai tocchi parodistici, coglie nel segno. La reinvenzione mordace ed estremamente critica dell’assetto mondiale, all’indomani del secondo, atroce, conflitto, concluso con la bomba atomica, carica invece troppo il registro satirico. Anche se lo scambio di omaggi in linea con l’indefessa egemonia dell’alloro sull’ulivo, quale simbolo della pace, scalzato dal dono delle variopinte bombe a mano come risposta al regalo ricevuto nel Paese delle Mille e una Notte degli esotici pugnali, strappa uno schietto sorriso, l’invettiva, una volta sferzante, in particolare nel sagace apologo sui legami di sangue, compreso quello aggiunto, I Tenenbaum, sembra adesso mostrare la corda. L’inane composizione elegiaca, dal timbro moralistico, inerente il tentativo di colmare il gap coi soci provenienti da ogni angolo del pianeta in merito al titanico progetto finanziario in ballo, che rischia di andare in fumo per i calappi tesi dalla rete spionistica decisa ad annullarne l’onnipotenza, veleggia sull’infertile superficie.

Ad approfondire l’inquieto rapporto dell’autocrate Zsa-zsa Korda con la figlia, suor Liesl, un’immusonita sposa di Cristo, ostile alle pose del padre, intento a privilegiare la materia rispetto allo spirito e a tener fuori dal testamento la copiosa prole maschile, che protesta a colpi di balestra, provvede la destrezza d’inserire nella cornice burlesca il tema dell’incomunicabilità. Mentre l’opera di demolizione nei confronti del tracotante uomo d’affari in chiave globe trotter, con l’ausilio di agenti segreti a corto, stringi stringi, d’autentica riservatezza, ed efferrati terroristi con le polveri bagnate, per cui il mucchio di carte delle credenziali cosmopolite nel taschino è sufficiente per sottrarre la preda a un proiettile fatale, scivola nell’arcinoto filone avventuroso e canzonatorio, già caro a Steven Spielberg, nonché nei pigri richiami citazionistici, da Casablanca a Tutti insieme appassionatamente, lo spasso è assicurato dall’ironia paradossale ed epidermica associata al perenne sentimento d’incertezza che attanaglia sia Zsa-zsa Korda sia suor Liesl. La proverbiale padronanza del deep focus, dispiegata per veicolare l’interesse del pubblico nei confronti di alcuni cambiamenti sennò impercettibili benché colmi di significato, i colori pastello connessi all’interazione tra habitat svariati ed esseri umani spesso avariati dall’empia sete di potere, i contrasti di tono legati dalla virtù di scrivere per mezzo della luce al dono dell’avvolgente fede in ciò che non si vede, quantunque si avverte nell’atmosfera ascetica, il frequente ricorso ad ardue ed epigrammatiche simmetrie, allo scopo di giustappore il gioco geometrico dell’intrigo da scoprire palmo a palmo all’irregolarità delle emozioni in seno allo sgangherato focolare domestico, con la sposa di Cristo trascinata nei fumi dell’alcol dalla spia nascosta nei panni del fido segretario, collocano la congegerie dei programmatici siparietti nell’ambito del pamphlet dapprincipio pungente. Che nel prosieguo dello spettacolo ora folcloristico ora trascendentale sulla scorta delle punture di spillo di tipo surrealistico intende appellarsi, scandagliando il carattere d’autenticità riguardante la vita degli affetti, scevra dagli interessi economici di enorme portata, all’Eterno Fanciullino. Che alberga nel cuore di qualsivoglia platea. Dal palato fine o di bocca buona.

Il ritorno a Canossa dunque in zona Cesarini del redento Zsa-zsa Korda, che a furia di cortocircuiti nell’universo dei sogni a tu per tu con l’Altissimo interpretato dall’attore-feticcio Bill Murray in versione barbuta comprende l’importanza di determinati valori, lì per lì aleatori, permea l’effigie dell’abitacolo dell’aeroplano privato. All’inizio semi-vuoto. Nelle battute conclusive, all’opposto, zeppo di personaggi algidi ed eccentrici. Tramutati man mano in persone tout court. Benicio del Toro nelle vesti del magnate che finisce col diventare lavapiatti, con l’animo sereno di chi al bel vivere preferisce al dunque il buon vivere, sciorina una prova troppo macchiettistica per sorpassare, in tema di farsa intelligente, gli eccessivi pretesti d’invadente comicità metafisica ed empatica. Gli altri interpreti, seppur prestigiosi nei vari ruoli conformi al gusto di Wes Anderson per gli accostamenti storici-carnevaleschi, restano mere pedine. Al servizio della reiterata coscienza di classe, d’ascendenza marxista, della dolce palingenesi dell’epilogo, frutto dell’amaro dileggio introduttivo, del livello fumettistico, accostato ora al fascino dell’ascesi ora agli effetti decorativi dilatati ad arte. Lungi dall’acquisire lo spessore dei fulgidi ragguagli introspettivi raggiunti con I Tenenbaum. La variabilità del rapporto d’aspetto, che riprende le linee guida utilizzate in Grand Budapest Hotel per cementare nel mutamento delle gradazioni kitsch in nuance chic la scoperta dell’alterità ed ergo della diversità divenuta familiare, non basta affatto a garantire all’aria fritta dell’ovvia mission impossible, coi rosari zeppi di gioielli e i ruzzoloni tipici dei cartoni animati sugli scudi, l’investitura ad aria accattivante dagli echi edificanti. L’accidia delle idee prese in prestito pervade perciò La trama fenicia ed espone l’azzardata molteplicità dei registri, relativi ai chiodi fissi dell’involuto Wes Anderson ansioso di riguadagnare il plauso delle platee stufe dell’infinitesima replica sfornita di guizzi degni di nota, ai limiti dei meri buontemponi spacciati per aedi della fabbrica dei sogni. Che oberano di vetriolo i preludi bislacchi, con gli incubi in agguato, e di zucchero le farisaiche ed enfatiche chiusure del cerchio.


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