Trattare mediante il filtro della scrittura per immagini del cinema la Storia con la “s” maiuscola degli eventi cruciali, come il Risorgimento italiano portato sul grande schermo dal pionieristico ed eclettico Alessandro Blasetti in 1860, è un bell’azzardo.
L’ormai esperto regista siciliano Roberto Andò, a quasi un secolo di distanza dal capolavoro dell’illustre antesignano capitolino, raccoglie l’ardua ma stimolante sfida con L’abbaglio. Riunendo l’affiatato terzetto costituito nel dotto ed esilarante dramedy rievocativo La stranezza, con Pirandello tacciato d’essere all’asciutto di cultura teatrale, dal duo Ficarra e Picone insieme a Toni Servillo.
Il fine della rappresentazione, che ripercorre lo sbarco in Sicilia dei Mille attraverso il cipiglio idealista d’un severo colonnello mazziniano e l’istinto di conservazione d’un paio d’immigrati ansiosi a chiacchiere di buttare fuori i Borboni dall’isola natìa ma decisi all’atto pratico a preservare la pelle, risiede nel dare un colpo al cerchio dell’alta densità lessicale, padroneggiata da Servillo nei panni del fiero ufficiale, e l’altro alla botte del parlato colloquiale che taglia corto ed ergo arriva dritto al punto. Il senso d’appartenenza trasmesso dalla palermitanità condivisa dall’autore con Ficarra e Picone fornisce un ulteriore stimolo a trarre partito tanto dalla virtù di premere il pedale poetico per esibire il carattere storicistico dell’assunto attraverso la ricercatezza dell’affresco rigoroso ed estroso quanto dalla capacità della commedia all’italiana di far ridere amaramente e di far riflettere ironicamente. Al pari dell’amore sincero sia per la prosa colta sia per le tavole del palcoscenico. Che cementano l’affinità elettiva col dotto Servillo. Per catturare così l’attenzione degli spettatori attratti dagli apologhi sulle svolte epocali di particolare pregio istruttivo e del pubblico dai gusti semplici. Desideroso di colmare l’abissale ignoranza, per cui non conoscere i fatti accaduti prima della propria nascita equivale a restare bimbi all’infinito, grazie alla scrittura per immagini di film ritenuti ancor oggi dei “romanzi per analfabeti”. L’operazione che vorrebbe ghermire all’unisono l’applauso della critica elitaria e le vette del botteghino debutta tramite il classico pedinamento zavattiniano del risoluto militare di carriera Vittorio Giordano Orsini. In omaggio alla poesia del quotidiano rinvenibile nel neorealismo. Connesso, in prassi e in spirito, all’etimologia della parola greca ἱστορία, historía, vale a dire “ispezione”. Lo specifico campo del sapere, che veicola lo studio del passato attraverso l’intrinseco linguaggio della Settima Arte, ricava dunque notevole linfa dall’uso della cosiddetta parte per il tutto. Condotta agli onori dei concetti della fabbrica dei sogni tradotti in elementi concreti di sicuro effetto da Sergej Michajlovič Ėjzenštejn ne La corazzata Potëmkin attraverso l’inquadratura degli stivali della milizia dello Zar. In questo caso è il dettaglio del piede zoppo dell’espansivo contadino Domenico Tricò ad aprire lo scrigno del composito prosieguo a una sorta di neorealismo in chiave mordace.
La mescolanza di toni, che richiama lì per lì alla mente La grande guerra di Mario Monicelli, nonché Il gattopardo di Luchino Visconti con una percezione però dell’avvenire che manda in soffitta quella conservatrice del Principe, alterna il respiro roboante ed epico al breve fiato narrativo comportato, perlomeno dapprincipio, dai siparietti d’avanspettacolo. Contraddistinti dai frizzi e dai lazzi dell’illusionista Rosario Spitale che all’inizio si finge nordico continuando a mischiare le carte da gioco con il sorriso birbante perennemente sulle labbra. L’assiduo ricorso ad ampi carrelli laterali per mostrare la rilevanza dei volti plebei degli altri soldati reclutati per lo sbarco a Marsala cede alla tentazione di veleggiare sulla superficie delle cose dissimulando di andare in profondità. Mancano infatti all’appello le vibrazioni sottopelle nelle repliche mimiche dei militi provenienti da ogni parte dello Stivale dinanzi alla possibilità d’uno scontro a fuoco con eserciti avversi armati fino ai denti. Infinitamente superiori di numero. Nonostante il cospicuo budget a disposizione i coefficienti spettacolari dispiegati per rendere appieno il dinamismo dell’azione, col cuore dei combattenti in gola, non devia dalle situazioni stereotipate di decine e decine di war-movie d’ordinaria fattura. L’accordo stabilito dal capociurma fedele al credo repubblicano con il carismatico Giuseppe Garibaldi, interpretato da un irriconoscibile ed estremamente concentrato Tommaso Ragno, deciso ad aderire al personaggio sino a nascondervisi, sprona la trama ad alzare l’asticella. Le vicende parallele dei due freschi disertori rimessi presto sugli attenti dall’extrema ratio di confondere le idee al nemico, e consentire così all’intrepido generale alla guida dei propri prodi di sconfiggere il resto delle truppe borboniche a Calatafimi prima di occupare definitivamente Palermo, rientrano in una psicologia elementare. Corroborata dall’inevitabile illusione dell’avventura, con una giovane monaca svelta a rinunciare al voto di castità, ed enfatizzata dalla narrativa d’ambito più ispanoamericano che nostrano. Nonostante le aggiustature dovute all’incombenza di tingere di verità gli scontati e improbabili stilemi picareschi impressi alla vigoria satirica garantita dalla consumata complicità in tandem di Ficarra e Picone, ben lungi entrambi dal cadere nell’impasse della deformazione caricaturale fine a se stessa, la sottigliezza della loro performance malincomica prevale man mano sullo scoglio della platealità ne L’abbaglio.
Anche gli elementi di contrappunto forniti dalle insistite modalità esplicative dell’opus oratorium padroneggiato di continuo dall’accigliato condottiero di riserva, che stigmatizza gli imbonitori destinati a fare opinione stimando invece gli abitanti dello sperduto paesino provvisto a iosa di pietà e coraggio, trascendono l’accidia di abbeverarsi a diverse fonti. La necessità espressiva dei vasti spazi cari ai western statunitensi, alla medesima stregua dei timbri antropologici ed etnografici connessi al trasporto delle canzoni popolaresche dell’epoca, riesce ad amalgamare i piani visivi all’immediata comunicativa dei paria dediti all’imbroglio, eppure sposati sul serio step by step alla causa, e ai paesaggi minacciosi incapaci d’intimidire i saldi ed empatici legami di suolo. Quando lo slancio tragico si accorpa al momento propizio a quello faceto, notoriamente con più frecce al suo arco, la mistica del sacrificio, anziché rimanere ancora a mezza strada, riesce ad accrescere i confini della fantasia. Cementando la sacrosanta sospensione dell’incredulità che permette ai vari motivi drammatici di acquisire davvero spessore. Legittimato dal colpo di coda attinto a I due marescialli con Totò e Vittorio De Sica. La partita a carte dell’epilogo, venti primavere dopo l’impresa compiuta per merito pure dei risaputi antieroi convertiti in eroi tout court dallo scatto di dignità, in cui s’annida l’imperitura scaltrezza, decreterà il vincitore secondo le regole. Il decisivo fascino intraprendente, sebbene conforme all’accidia delle idee prese in prestito oltretutto alla cultura ritenuta bassa dalle platee con la puzza sotto il naso, è invece un arguto inchino al capovolgimento sistematico concesso dalle risorse burlesche in soccorso del quadro supremo di radice classica. Toni Servillo s’inserisce alla perfezione nel contesto severo e glorioso degli orridi incendi e delle praterie battute, oltre che dal vento, dall’appuntamento con la storia sconosciuta dalla maggioranza degli studenti. Ficarra nei panni del bucolico circoscritto dalla battuta pronta e Picone nelle vesti del baro disposto al martirio compensano la penuria d’una destrezza ritmica con il lascito maggiore del magico Principe Antonio De Curtis in arte Totò: la dote di spiazzare chiunque. Chi lo suppone serioso con la nota buffoneria. Chi ormai ne dà per scontata l’allegra irriverenza con un sussulto di gravità mista a decoro. Chi non afferra che dietro L’abbaglio alberga il ghiribizzo d’un antesignano alieno ai lugubri crepuscoli con la classe dell’eminente depositario dell’orgoglio autoctono risorto nei momenti realmente topici.
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