Lacci: Luchetti porta sullo schermo il romanzo di Starnone

L’attesa trasposizione sul grande schermo dell’amarissimo romanzo Lacci di Domenico Starnone ha aperto la settantasettesima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica all’insegna dell’egemonia del tedium vitae sulla gioia familiare.

Ed è proprio l’insopportabile noia a svilire le certezze della gioia del focolare. Nell’incrinarle l’esperto regista romano Daniele Luchetti, che con Mio fratello è figlio unico aveva saputo trarre linfa dall’intenso libro Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi per poi conferire alla densa scrittura per immagini empatiche varianti, tenta ora di conciliare l’ennesima ricerca del tempo perduto con l’ampio margine d’enigma ad appannaggio dei gialli canonici.

A dispetto dell’audace contaminazione di generi ed echi stilistici, agli antipodi tra loro, Marcel Proust e Agatha Christie appartengono ad altri pianeti. In questo, avvezzo ai soliti inchini nei riguardi degli intrinseci numi tutelari, benché il fermento ispirativo dell’autore capitolino, rinvenibile nel pathos impresso alle soluzioni tecniche, trascenda l’impasse dei nani sulle spalle dei giganti, manca l’afflato poetico garantito dell’ingegno. I ferri del mestiere da soli non bastano. Il lavoro di sottrazione dell’incipit, frammisto alla metonimia, cara al guro Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, con l’inquadratura che introduce l’aura straniante del ballo di gruppo, strizza l’occhio ai falsi esperti. Senza cogliere alcuna dinamica interiore. Le modalità esplicative dei dialoghi, seppur piuttosto pregnanti, gettano così alle ortiche le risorse offerte dalla bellezza del silenzio. La voce calda ed emozionante di Luigi Lo Cascio, nei panni dello speaker radiofonico napoletano Aldo che legge l’immancabile favola della buona notte agli incantati figli Sandro e Anna, cede il passo in maniera piuttosto programmatica all’algida effigie dei momenti di mesto distacco. Quando il tradimento confessato a fior di labbra provoca l’ovvio rigetto, con la moglie Vanda stordita dal dolore e dall’incapacità di custodire appieno il rispetto per sé stessa, cominciano ad abbondare le correzioni di fuoco. L’insistito ricorso pure agli stilemi dei riveriti film muti, con le parole di chiarimento inudibili per un attimo alle orecchie degli estranei nella sala d’incisione, appare assai tardivo. Il vacuo frastuono dei suoni intradiegetici ed extradiegetici è comunque compensato, almeno in parte, dall’efficace inquietudine dei movimenti di macchina a schiaffo.

Le reazioni mimiche degli innocenti pargoli dinanzi ai soprassalti di gelosia dell’inviperita Vanda, che Alba Rohrwacher impersona facendo inopportunamente il verso al mostro sacro Meryl Streep, avvezza ad accorati assoli ed epidermici arrossimenti, cadono invece nella deleteria scontatezza. Il desiderio di aggiungere un colpo d’ala di sicuro effetto, con l’ausilio dei match cut visivi che applicano la formula dell’analessi e della prolessi nella pretesa di toccare il punto nevralgico ed ergo cruciale della vicenda, traligna in boria. Al contrario del toccante ed erudito mélo Iris – Un amore vero di Richard Eyre, il confronto tra passato e presente batte a vuoto la grancassa dell’apparenza intellettualistica. La sostanza riposta in egual misura nel cuore e nell’intelletto è ridotta al lumicino. Il leitmotiv dei brani di musica classica, anziché fungere da compiuto ed energico contrasto col pur fugace scandaglio antropologico degli evocativi vicoli partenopei, inaccessibili per l’introverso Sandro, chiuso in casa a guardare tristi cartoni animati, ha più fiato che polmoni. Il polso della situazione, affidato allo studio degli stati d’animo dei coniugi ricongiunti che dopo trent’anni stilano un bilancio esistenziale colmo d’acredine e d’inconsolabile rimpianto, sfugge perciò vagheggiando risvolti imprevisti ed elegiaci rintocchi. La reiterazione delle scene chiave, al fine di svelare l’arcano step by step ed esibire l’accattivante connubio di false piste e tracce incisive, snuda le aspre individualità. Che tuttavia soffrono di contraddizioni dovute alla diversa aderenza di Laura Morante e Silvio Orlando agli ingrigiti sposi. Con i volti solcati da profonde rughe d’espressione ed empiti di rabbia repressa.

Lui intento ad anteporre i manieristici semitoni, cristallizzati nello sguardo avulso, alla vigoria dipinta sugli occhi di Lo Cascio. Lei, troppo eterea ed elegante per incarnare la consorte ormai pentita di essersi contraddetta confondendo il capriccio con l’affetto. Chiarito l’intimo nesso dei lacci delle scarpe, annodate insieme per ristabilire il legame paterno infranto dall’illusione dell’avventura e della gioia scevra dai ricatti morali, l’accuratezza della messinscena dovrebbe conferire l’humus ideale all’ora del discernimento risolutivo. Affidato soprattutto ad Anna. Che Giovanna Mezzogiorno, governando con maggior misura la peculiare tentazione dell’iperbole rispetto alle previe prove d’attrice incline allo strazio emotivo, incarna sulla scorta d’uno schietto, nonché raro, trasporto. Nondimeno la vibrante atmosfera creata dalle confessioni fraterne, acuite dai legittimi sdegni che attanagliano i ricordi nell’età adulta, non riesce ad appaiare l’indubbia ricchezza di sfumature al brivido della scoperta. Emergono allora i luoghi comuni dei thriller psicologici che officiano il riprovevole piacere di tagliare il cordone ombelicale all’insegna dell’autocompiacimento per la realtà venuta a galla con l’empia resa dei conti. Il dinamismo dell’azione, che sostituisce l’insistita vena di malinconia, tagliata fuori dall’intreccio di scoramento e umorismo capace d’impreziosire gli interludi di pace nei claustrofobici spazi dove si consuma ogni speranza, convince, infatti, assai poco in Lacci. L’arrivo in zona Cesarini del cambio di rotta non riesce quindi a chiudere il cerchio. Bensì provoca qualche sbadiglio. Ed è una bella disdetta per un tronfio apologo cerebrale che vuole tenere sui carboni ardenti il pubblico unendo l’apprensione della suspense alla discrepanza delle note intime.

 

 

Massimiliano Serriello