L’accusa: non esiste un’unica verità

Tratto dal romanzo Les choses humaines (Le cose umane nella traduzione italiana) di Karine Tuil, L’accusa, è un film di Yvan Attal, già presentato fuori concorso al Festival del Cinema di Venezia del 2021.

Scritto dallo stesso Attal insieme a Yael Langmann, porta in scena Alexandre (Ben Attal), studente brillante con un futuro promettente davanti. Studia in California, a Stanford, ma approfitta di una piccola pausa didattica per tornare in Francia.

I suoi genitori, separati, sono una coppia benestante e piuttosto nota: il padre, Jean Farel (Pierre Arditi), è un importante giornalista con ottimi rapporti negli alti ranghi politici e la madre, Claire (Charlotte Gainsbourg), una scrittrice attivista focalizzata in particolar modo sulla questione del femminismo. La prima sera, Alexandre viene invitato a cena dalla madre, dove conosce Mila (Suzanne Jouannet), la figlia del nuovo compagno di Claire. Ed è proprio con Mila che la sera stessa si reca in uno squallido locale in cui alcool, droga e misere scommesse tra amici faranno da apripista per il fattaccio: il giorno dopo, Mila accusa Alexandre di stupro. La denuncia si abbatte come una mannaja, sia sui due ragazzi che sulle vite già sentimentalmente sconvolte dei rispettivi genitori, e lo squarcio si allarga ulteriormente a causa delle relative ripercussioni sociali e mediatiche.

L’accusa è un film massiccio. Un film pesante, anche, ma non per fruibilità o per difficoltà di comprensione, bensì nell’accezione di peso effettivo e specifico all’argomento trattato. Il tema è attualissimo: la lente occidentale è sempre più puntata sulla condizione della donna all’interno delle relazioni malsane e, purtroppo, sui crimini che ne derivano. La violenza sessuale è il topic, tra quelli più scomodi possibili forse, ma Attal si destreggia magnificamente. Ad aiutarlo, in primo grado, l’impeccabile bravura di ogni singolo attore che vediamo apparire nel lungometraggio. E, se si considera che nel cast sono presenti sia la moglie (Charlotte Gainsbourg) che il figlio stesso (Ben Attal) del regista, è giusto mettere le mani davanti e ribadire che a nessuno è stato “regalato” il ruolo. Allo stesso modo va detto che a nessun personaggio è stato regalato più spazio o considerazione di altri.

Il film è equilibrato, in tutto e per tutto: quando sembra si stia sbilanciando a favore o contro l’imputato, ecco che un nuovo punto di vista si prende la scena e una nuova campana risuona nel caos, tanto da far ribaltare completamente il giudizio provvisorio. Questo gioco prosegue costantemente, dando come risultato l’incapacità oggettiva di schierarsi. La bilancia giuridica è incredibilmente stabile, livellata esattamente a metà. Un’anomalia (perfetta) difficile da trovare tra gli infiniti film drammatici che hanno come scenario l’aula di tribunale. L’accusa è un lavoro diviso perfettamente in due anche nella struttura. Nella prima parte ci vengono presentati gli universi dei due giovani protagonisti, contrapposti in altrettanti sotto-capitoli espliciti: “Lui” e “Lei”. Par condicio e imparzialità sono sovrani già da qui. L’equilibrio già sottolineato in precedenza non accenna mai a incespicare, nemmeno nella seconda parte del film, quella interamente dedicata al processo.

Ed è proprio all’interno di questo scenario giuridico che il film si esprime nella sua massima forma. Il silenzio dell’aula è netto e lascia spazio alle magnifiche interpretazioni degli attori che si susseguono: imputato, vittima, avvocati, testimoni e così via. Anche qui non vi è preferenza alcuna, a ciascuno viene data l’opportunità di esprimersi attraverso veri e propri monologhi che profumano di teatro, scritti con efficacia minuziosa. Tali momenti vengono accompagnati spesso da inquadrature fisse che non staccano quasi mai. Altre volte, invece, sono impreziositi da lunghi piani sequenza caratterizzati da minimi movimenti di camera o armoniose carrellate su tutti i membri della corte. C’è poco del classico film da tribunale. Ogni interrogatorio, dichiarazione o arringa è plausibile. E se quindi nessuno è vincitore e nessuno è vinto, ecco che la verità può diventare “relativa”. Così come il tempo: i centoquaranta minuti di durata sono lunghi solo relativamente, perché la visione de L’accusa non subisce in alcun modo l’immensa mole temporale. Si resta incollati allo schermo fino all’ultimo, in attesa di una sentenza impossibile sia da prevedere che da attribuire, per via della grigia imparzialità che spesso caratterizza il limbo che separa la verità morale da quella giuridica.

 

 

Alessandro Bonanni