Il vento tra i capelli di una giovane donna triste. Il vento che, silenzioso, spalanca la porta di una casa. Il rumore delle foglie mosse dal vento accanto a un uomo apparentemente morto. Analogamente a quanto, a suo tempo, ha fatto Fellini, ne L’albero dei frutti selvatici il cineasta turco Nuri Bilge Ceylan vuol comunicarci, tramite il vento, la morte o il presagio di essa. Sia che si tratti di morte naturale che di morte spirituale. O, persino, di morte intellettuale.
Questo è quel che accade nel villaggio del giovane Sinan (Dogu Demirkol), il quale, dopo essersi laureato, cerca di mettere da parte una quantità di denaro sufficiente a far pubblicare il suo romanzo. I debiti di suo padre, però, renderanno tale percorso ancora più difficile.
Conoscitore come pochi della contorta psicologia umana, il regista ha saputo mettere in scena, anche stavolta, un ritratto realista e disilluso (ma, allo stesso tempo, poetico ed emozionante) della Turchia dei giorni nostri, in cui sembra non esservi più spazio per i giovani e per la cultura e in cui sono i potenti – con la loro smania di potere e la loro gretta ottusità – ad avere sempre la meglio.
Se, tuttavia, ripensiamo ai suoi precedenti lavori C’era una volta in Anatolia (2011) o Il regno d’inverno (vincitore della Palma d’Oro nel 2014), vediamo come nel presente tutto venga messo in scena secondo il personale punto di vista del giovane, addirittura a scapito della stessa terra e degli ambienti, grandi protagonisti nelle menzionate opere.
Attraverso le vicende di Sinan, dunque, grazie a un copioso uso dei dialoghi – in cui, appunto, ci vengono mostrate le numerose sfaccettature e le paradossali contraddizioni di ogni personaggio presentatoci – viene scandagliato ogni singolo aspetto della vita di un ragazzo alle prese con la ricerca di un impiego, ma che deve fronteggiarsi con la politica, la religione e, non per ultime, le pericolose barriere mentali della famiglia e della gente del posto.
Con una messa in scena che ben sa alternare momenti di realismo a un forte simbolismo e a scene oniriche cariche di tensione, L’albero dei frutti selvatici si è rivelato il lavoro più accessibile di tutta la filmografia di Ceylan (che sa ben reggere le tre ore e passa di durata, dimostrandosi costantemente scorrevole), ma che riesce, allo stesso tempo, a regalarci un prezioso ritratto della Turchia di oggi. Oltre all’immagine di un rapporto padre-figlio tra i più intensi e delicati che siano mai stati raccontati per immagini.
Marina Pavido
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