Passare dall’adattamento per il grande schermo del libro Picciridda – Con i piedi nella sabbia di Catena Fiorello, sulla scorta dell’indubbia destrezza di riuscire ad appaiare l’acceso senso d’appartenenza d’un’indocile figlia d’immigrati e l’universo folto d’intima speranza ed echi ancestrali dell’allusiva geografia emozionale, al biopic dell’indocile cantante folk Rosa Balistreri in L’amore che ho nasconde diverse insidie per l’ambizioso ma acerbo regista palermitano Paolo Licata.

Avvezzo allo studio del violino, alla direzione delle opere liriche, ai segni d’ammicco degli scaltri woman movie, agli enfatici palpiti dell’inarrestabile trepidazione innescata, oltre che dai vincoli di suolo costituiti nel film d’esordio dall’isola di Favignana, dalla forza trascinante della musica. Che prende subito piede. Insieme al prevedibile surplus dei flashback. Associati dapprincipio ai flash dei fotografi. In seguito alle vecchie fotografie.

La stridente contraddizione rappresentata dalla velleità di connettere l’attitudine ad allargare gli spazi dell’immaginazione ai sommessi semitoni dell’antiretorica scoperchia alcune curiose ed evidenti scollature. La gestione della cronologia degli eventi, ora apparentemente minimi in seno alla famiglia vecchio stampo, se non retrograda, ora di pubblico dominio una volta trasferita a Firenze negli anni ’60 dello scorso secolo, in teoria dovrebbe ricavare parecchia linfa dall’arcinota rivoluzione della consecutio temporum. Per impreziosire il ritratto svolto dal nipote della cantautrice, Luca Torregrossa, nel romanzo L’amuri ca v’haiu, tramite l’intrecciarsi delle vibratili prove d’attrice di Anita Pomario, Donatella Finocchiaro e Lucia Sardo. All’atto pratico mischiare le carte, con l’ausilio spesso dello scontato match-cut visivo, risulta un esercizio di stile pretestuoso ed esplicativo. Sprovvisto quindi del carattere misterioso ad appannaggio dei migliori apologhi sulla memoria. Scomodata a ogni piè sospinto dalla velleitaria scrittura per immagini di Paolo Licata. Che non arriva nemmeno alla caviglia della talentuosa, seppur misconosciuta, collega messicana Claudia Sainte-Luce ne La Caja Vacía. Assai sagace ed estrosa a sottintendere in filigrana i ricordi dispersi nella scatola vuota della memoria d’un padre al crepuscolo senza mai ricorrere ai pleonastici colpi di gomito della rievocazione tout court.

Le idee prese invece in prestito sia dalla costruzione atemporale sia dall’intrinseca tenaglia del cupio dissolvi nell’intenso ed eterogeneo affresco biografico dell’affascinante e tribolata esistenza dell’inobliabile Édith Piaf, La vie en rose di Olivier Dahan, evidenziano i limiti tipici dei nani sulle spalle dei giganti. Di conseguenza il presunto amor vitae – frammisto al cupio dissolvi al pari dell’effigie stereotipata del Sud arcaico nel 1942, della Firenze artisticamente emancipata nel 1962, a braccetto del pittore Manfredo Lombardi, dell’algida Palermo dove nel 1990 esala l’ultimo respiro – traligna step by step nella palla al piede del taedium vitae. A nulla servono contro la deleteria incognita della noia di piombo l’ausilio nella colonna sonora d’una vocalist esperta ed entusiasta come Carmen Consoli, che ritiene Rosa Balistreri la Amalia Rodriguez della Sicilia, né il dietro le quinte degli impietosi palcoscenici e la cosiddetta università della strada. La penuria dei paesaggi riflessivi, ghermiti in modo piuttosto convincente, al contrario, nel villaggio di pescatori in Picciridda – Con i piedi nella sabbia, impedisce d’inquadrare l’artista muliebre in prevalenza di strada nel suo humus congeniale. L’interazione tra habitat ed esseri umani, con le figure degli intrattenitori ambulanti abbozzate alla bell’e meglio, stenta quindi a gettare una luce inedita ed eminentemente rivelatoria sulle ubbie e gli slanci dell’iconica folksinger in questione. Lo spettacolo secondario della recitazione, con Lucia Sardo bravissima comunque a catturare in virtù del compiuto gioco fisionomico il mix di sfrontato sarcasmo ed esplicito strazio della cantautrice in procinto di coniugare l’esistenza all’imperfetto, timbra il cartellino.

Lo spettacolo principale, riposto nelle soluzioni espressive necessarie a trascendere oltre i soliti meandri da scoprire insieme agli immancabili scheletri nell’armadio, appare, all’opposto, latitante. L’insolenza giovanile di Rosa, che non si lascia imbambolare da preti lascivi e mariti padroni, la sofferenza, la reazione alle molestie, i puntini messi su tutte le “i”, a dispetto dell’analfabetismo iniziale, i brani rimasti alla storia, ed eletti ad antidoto allo sciovinismo ai danni delle donne, rientrano nell’ordinaria amministrazione dei meri luoghi comuni. Incapaci di cogliere nella programmatica alternanza di pieghe psicologiche, timbri culturali, salti temporali e connotazioni antropologiche ed etnografiche ivi congiunte il sentimento d’identità riposto nei luoghi dell’anima. Dentro e fuori dall’isola natìa. La vocazione di ritrattista ispirato ed elegiaco del volenteroso Paolo Licata veleggia così in superficie. Ad approfondire l’irrequietudine ideologica, l’amara alienazione, l’ascendenza popolaresca, gli anfratti risolutivi, in cui s’annida il bisogno di tirare le somme dell’emblematica protagonista, occorreva qualcosa di più della vena interpretativa del cast al femminile. Una prova di speleologia dei traumi, degli assilli, del cifrario dell’anima, frammisto sia in spirito sia in prassi alla terra d’origine talvolta maligna, resta d’altronde del tutto incompatibile coi vezzi calligrafici e descrittivi intenti a esporre grossolanamente il concetto di liberazione del canto. La sottigliezza di condensare cipigliosi punti fermi e costanti mutazioni, strumenti formali ed elementi contenutistici non è nemmeno contemplata da L’amore che ho. Incline ad annacquare con la ridondanza dell’infecondo slow motion il ritmo grave e forsennato d’un cuor di donna con gli attributi. Aliena a qualsivoglia tipo di scontata ampollosità.


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