L’Angelo dei Muri di Lorenzo Bianchini

Venerdì 8 luglio 2022 ho avuto la fortuna di assistere a Firenze, presso il bellissimo spazio polifunzionale della Manifattura Tabacchi, alla proiezione del nuovo film del regista friulano Lorenzo Bianchini, L’Angelo dei Muri, preceduta e seguita da un’interessante chiacchierata col regista stesso ed un membro della produzione. L’Angelo dei Muri è un film all’apparenza atipico per Bianchini, che siamo abituati a considerare un regista di genere, ma tutto sommato, scavando nel profondo, si noterà come l’idea del perturbante, che regna sovrana in ogni opera di questo giovane autore italiano, stia anche alla base di quest’ultimo lavoro, rendendolo, a ben guardare, molto più banchiniano di quanto sembri ad una prima occhiata. Non è facile raccontare questo film senza rischiare a ogni piè sospinto lo spoiler, è una di quelle pellicole che gioca buona parte della sua essenza sul colpo di scena finale, che stravolge e sconvolge la percezione che si è avuta della vicenda e dei personaggi fino a quel momento. Lo stesso Lorenzo non riusciva a parlarne facilmente prima della visione, per paura di rivelare qualche dettaglio importante. Tuttavia ci proverò, e sono certa che ci riuscirò, perché non posso e non voglio privare nessuno del delizioso piacere di godere di quest’opera frame dopo frame, corridoio dopo corridoio, silenzio dopo silenzio. L’Angelo dei Muri è un film sul silenzio, ancora di più di quanto lo fossero i suoi predecessori, Occhi del 2010 ed Oltre il Guado del 2013, in cui man mano da due protagonisti si è passati a uno solo. Ed anche qui il protagonista indiscusso è uno, Pietro, un anziano che vive solo nel suo appartamento di Trieste. La sua è una storia di solitudine, di ricordi, affetti e sentimenti, che prenderanno corpo via via durante la visione del film.

In una fredda e grigia Trieste vive in un grande appartamento l’anziano Pietro Dossi, un uomo solo che non sembra avere né amici né affetti. Un bel giorno riceve la visita dell’ufficiale giudiziario che gli notifica lo sfratto: entro fine mese dovrà lasciare la casa. Non sapendo dove andare ed a chi rivolgersi Pietro decide così di nascondersi all’interno dell’intercapedine di un muro e di restare a vivere lì. L’appartamento viene rimesso in affitto ed arriveranno ad abitarvi una mamma con la figlia piccola che ha problemi alla vista: da quel momento per Pietro le cose cambieranno in maniera radicale, e comincerà ad affezionarsi alla piccola amica che non può vederlo ma avverte la sua presenza.

Come si può intuire dallo stralcio di trama che si riesce a  raccontare senza spoiler, L’Angelo dei Muri si colloca più nell’ambito del drammatico che del film di genere. Eppure i lunghi piani sequenza che Bianchini ci propone già in apertura, nei labirintici corridoi della grande casa austro-ungarica, hanno qualcosa di oscuro, misterioso, come se tra quelle stanze si celasse un segreto che non può essere raccontato, che deve rimanere nascosto, sepolto, perché riportarlo a galla potrebbe fare estremamente male. Nonostante l’appartamento di Dossi sia, nella finzione, collocato a Trieste, nella realtà ci troviamo invece a San Vito al Torre, all’interno di una grande villa che per esigenze di copione è stata riadattata come se si trattasse di un palazzo con più appartamenti. In maniera molto hitchcockiana sono state eseguite delle gigantografie delle vedute di Trieste e sono state letteralmente appiccicate fuori dalle finestre del palazzo, così da dare perfettamente l’idea che la casa sia collocata nel pieno centro del capoluogo friulano. L’uso del drone fa il resto, facendo uscire il nostro sguardo dalle finestre e facendolo spaziare fino al mare. Bianchini, come sempre, riesce a trasformare un progetto low budget in un piccolo capolavoro, senza bisogno di chissà quali effetti, perché, se non lo si fosse ancora capito, il suo talento è portatore di una cifra autoriale che lo rende davvero uno dei registi più interessanti dell’indie italiano.

La scelta del protagonista è caduta sull’attore francese Pierre Richard, divenuto noto in Italia per il suo ruolo nel film del 1981 di Francis Veber La Capra, a fianco di Gérard Depardieu. A quasi 90 anni, Richard era perfetto, col suo volto solcato da profonde rughe ed il naso importante, per interpretare Pietro Dossi, anziano carico di anni e di ricordi di vita tutti legati a quella casa che improvvisamente gli viene chiesto di lasciare. Non dice una parola per tutto il film, mai, nemmeno una. Così facendo ci trasporta nella sua solitudine spessa ed ostinata, coi suoi occhi esprime tutto quello che avrebbe potuto esprimere a parole, e forse addirittura di più. È perfetto, e, nonostante la sua lunga e brillante carriera, non ha avuto alcun atteggiamento da divo ma anzi si è piegato volentieri a tutte le richieste di Bianchini, fino a strisciare sotto al letto o ad entrare ed uscire perennemente aggobbito dentro il condotto dell’areazione. Accanto a lui l’attrice slovena Iva Krajnc, la piccola Gioia Heinz, per la prima volta sullo schermo e dotata di un talento davvero innato data la giovanissima età, e il giovane attore francese Arthur Defays, nipote dello stesso Richard. Come sempre Bianchini riduce al minimo sindacale il numero degli attori, ma punta su quelli giusti, che lasciano il segno, ed anche stavolta ogni scelta è perfettamente adatta al ruolo da ricoprire. La casa, poi, diviene l’altra grande protagonista del film, con i suoi corridoi, le sue finestre, i suoi oggetti, e le presenze che la abitano, esattamente come lo era stata quella di Occhi, altro gioiello dell’introspezione bianchiniana. E, proprio come in Occhi, ma anche come in molti altri capolavori del cinema di genere italiano ed internazionale, la casa ad un certo punto non sarà più un rifugio ma una minaccia, da protagonista altera ma rassicurante diverrà antagonista cupa e pregna di minacce. Ad un certo punto dà quasi l’impressione di vivere, di muoversi, di respirare autonomamente, fino a fagocitare al suo interno il protagonista, non lasciandogli la minima possibilità di fuga, tanto che quando Pietro si ritroverà quasi per errore sulle scale del palazzo all’esterno del suo appartamento cadrà e perderà i sensi, fino ad essere ritrovato la mattina dagli operai che stanno facendo i lavori di riadeguamento che lo riporteranno di nuovo all’interno della sua dimora-prigione dalla quale anche volendo ormai sa che non può scappare. Una citazione a Il Nascondiglio avatiano, in tal senso, non può non essere d’obbligo.

L’Angelo dei Muri è un film sulla solitudine, dicevamo, ma anche sulla perdita, sul lutto e sull’elaborazione del medesimo. Un film sui rimorsi cocenti, sui rimpianti, sul rapporto con i fantasmi del proprio passato che un qualche evento richiama dal nostro subconscio, dove ci eravamo sforzati di riporli con determinazione ed ostinazione. Un film sulla perdita volontaria della memoria, e sul riaffioramento del rimosso. E pare incredibile anche quanto a livello psicologico il film, scritto da Bianchini insieme alla sorella Michela ed a Fabrizio Bozzetti , sia attinente precisamente a certi tipi di atteggiamenti studiati ed elaborati clinicamente. Questo è un film dell’anima, e sull’anima si riflette e vi rimane invischiato scomodamente, perché fa male e fa riflettere, ma in fondo c’è una sorta di catarsi che non può non apparire liberatoria. Bianchini racconta che inizialmente aveva pensato di realizzarlo completamente senza musica ma alla fine sarebbe stato fin troppo perturbante, forse si sarebbe osato più del dovuto, e la scelta di particolari musiche così raffinate ed eleganti che seguono i sinuosi movimenti della mdp non può che rappresentare l’ennesimo traguardo centrato dal regista friulano e dalla sua squadra. Ama i piani sequenza, Lorenzo, e non li lesina, così come ci regala spesso insistenti primi piani del volto scavato di Pietro, ci fa entrare in lui, nella sua solitudine, i suoi stati d’animo, fino ad una sorta di crasi tra lo spettatore ed il personaggio, entrambi muti e osservanti, che devono solo capire e razionalizzare ciò che sta scorrendo davanti ai loro occhi.

Pellicola squisitamente artigianale, prodotta con un budget contenuto ma con tantissimo estro, cuore e soprattutto talento, L’Angelo dei Muri può definirsi una sorta di drama a sfondo soprannaturale con all’interno un pizzico di noir regalato dalle osservazioni clandestine di Pietro all’appartamento davanti al suo, nascosto dietro le tende delle sue finestre. E poi ci sono i labirinti, fisici e mentali, dentro i quali ci perdiamo insieme a Pietro, ma anche con quella mamma che è sempre a lavoro e con quella bimba che vive perennemente nell’ombra. A rendere tutto alla perfezione, a farci entrare completamente dentro questo caleidoscopio emozionale, ci pensa il direttore della fotografia Peter Zeitlinger, il cui nome è legato a doppio filo a quello del grande regista tedesco Werner Herzog. Usando una fotografia scura ma nitida, che ci permette di cogliere ogni dettaglio, sebbene avviluppato nel maelstrom chiaroscurale dell’appartamento e delle rare scene d’esterni, Zeitlinger rifinisce alla perfezione l’opera, già in sé notevolmente delineata, di Bianchini. Cosa si nasconde dietro gli occhi spenti della piccola Sanja? Dietro le sue posizioni strane ed innaturali? Perché la madre pare ossessionata dalle finestre, tanto da arrivare a sigillarle con del nastro adesivo? Creare i misteri, anche in un film non completamente attinente al genere, piace sempre al nostro Bianchini, che riesce ogni volta a stupirci e sorprenderci pur fornendoci tutti gli indizi che servono per risolvere da soli il caso. Sceneggiatore, regista, montatore e scenografo: quando di un film sei tutto ciò, questo non può che diventare lo specchio della tua anima, e creare un’empatia indissolubile con lo spettatore che quest’anima ha voglia di sondare fino nei suoi abissi più profondi. E poi mette lì, di nuovo, come in tutti i suoi precedenti film, il suo Friuli, la sua terra, le sue origini, la sua storia. Schivo, sì, di poche parole, lontano dai riflettori, ma se solo si ha voglia di decodificare i messaggi dietro ai suoi film, Lorenzo Bianchini non sarà più una chimera ma si farà conoscere nella maniera più intima e personale che si possa immaginare. Proprio come quel Jules Verne che ama citare, Bianchini è un costruttore di sogni, un viaggiatore che sommessamente ci porta all’interno di emozioni ignote ma quanto mai adattabili a ciascuno di noi. Ed è per questo che io rimango ogni volta schiacciata dal fascino dei suoi lavori, tant’è che sono già qui impaziente ad aspettare l’uscita del suo nuovo film, girato in concomitanza con L’Angelo dei Muri, La Memoria del Buio, dove si ricreerà, per mia somma gioia e diletto, il sodalizio con l’attore icona di Oltre il Guado, Marco Marchese.

https://www.imdb.com/title/tt10936700/

 

 

Ilaria Monfardini