L’appuntamento: temi romanzeschi ed esami comportamentistici per Teona Strugar Mitevska

Dopo aver dato prova con Dio è donna e si chiama Petrunya di saper congiungere al meglio temi romanzeschi ed esami comportamentistici, affidandosi all’etica della messa in scena, aliena all’enfasi di maniera, l’ambiziosa regista macedone Teona Strugar Mitevska trae maggiormente linfa dalla contemplazione del reale per garantire all’ultima fatica, L’appuntamento, un saldo ed empatico timbro d’autenticità.

L’assunto narrativo, profondamente sentito dall’abile co-sceneggiatrice bosniaca Elma Tataragić, le offre la possibilità di riuscire ad amalgamare allo spunto autobiografico, ed ergo intimista, i timbri antropologici dell’affresco corale. Nondimeno il fantastico della vicenda, con la vittima e il carnefice messi a confronto trent’anni dopo l’assedio di Sarajevo da un eccentrico speed date, non sfugge alla vana prassi d’instillare alla crudezza oggettiva un surplus in chiave thrilling.

Il lavoro di sottrazione, che di per sé concede poco o niente all’immaginazione delle masse, cede così spesso spazio ai motivi d’insicurezza tramutati da copione in elementi spettacolari. Bisogna comunque riconoscere all’avvertita scrittura per immagini, in virtù del vigoroso senso dell’inquadratura ravvicinata e dei movimenti circolari di macchina, una poliedricità espressiva degna d’encomio. Specie nel catturare il mix di reazioni mimiche ed empiti nascosti dei quaranta partecipanti. Alla ricerca chi della scintilla d’amore, chi d’un semplice sfogo degli impulsi libidici, chi dell’inane antidoto contro l’isolamento. Il compiuto apporto fisionomico dell’intero cast basta quindi a sopperire al pernicioso scarto tra l’ostentata aderenza ai personaggi degli attori professionisti e l’esile spontaneità di tratto dei non professionisti. L’evocazione della geografia emozionale, conforme all’attitudine di sottrarre al visibile per aggiungere all’invisibile, è un valevole tassello del puzzle composto dalla cura dei dettagli e dall’impostazione teatrale.

A differenza però di Dio è donna e si chiama Petrunya le figure di fianco, nonostante l’efficacia degli aneddoti satirici e dei controcampi amari che le legano al quadro d’insieme, restano in superficie rispetto alla coppia protagonista. Lui, Zoran, reduce dalla guerra in Bosnia ed Erzegovina, schiavo del rimorso per aver sparato a un’inerme abitazione il primo giorno dell’anno 1993, autodefinitosi adesso “l’uomo più felice del mondo”, come recita il titolo originale, nell’infecondo tentativo di vincere con l’arma dell’abusato sarcasmo il dolore che lo attanaglia. Lei, Asja, magistralmente interpretata da Jelena Kordić Kuret, ghermita dapprincipio dal pedinamento d’ascendenza zavittiniana, pronta poi a innescare un’ampia tastiera di umori connessi al passaggio dallo stile austero ad alcuni intermezzi onirici. Mentre i rumori diegetici tengono gli spettatori sui carboni ardenti, in merito al rapporto tra verità e menzogna, la veste luministica affidata alla fotografia di Virginie Saint Martin disperde nei fittizi giochi d’ombra e nelle correzioni di fuoco la percezione di vertigine interiore.

La repulsione, l’attrazione, la rabbia, il perdono, la tenerezza ruotano infine attorno a tecniche di straniamento lontanissime dagli eloquenti silenzi scelti all’inizio per impreziosire nella dialettica degli sguardi l’approccio semidocumentaristico. Ne esce un film imperfetto, irregolare, che sa tuttavia penetrare la complessità dell’esistenza attraverso le rughe d’espressione, i trapassi di tono, l’implicito inno alla speranza riposto nel ballo di Asja in barba al divario generazionale delle feste per minorenni. Il leitmotiv del cuore che batte all’impazzata, sull’onda dei momenti epifanici frammisti ai moti ora di stizza ora di comprensione, provoca la complicità emotiva pure del pubblico meno attratto di solito dagli stilemi dei drammi d’impegno civile. Viceversa ne L’appuntamento l’inutile sforzo di veicolare l’intarsio degli imprevisti sviluppi, con i nodi che vengono al pettine step by step, tramite il graffio della canzonatura e la lusinga dell’apologo mélo trascina nella noia di piombo chiunque rifugga dalle lagne discordanti.

 

 

Massimiliano Serriello