La sceneggiatura di Last Christmas, redatta da Bryony Kimmings ed Emma Thompson, concede molte banalità nell’inane tentativo di unire la sagacia farsesca all’acume introspettivo. L’azzardo, inoltre, di mettere gli stilemi del cinema fantastico, che cementa l’egemonia dello spirito sulla materia, al servizio degli ampi contrappunti malinconici, inclini a un tenerume di maniera scambiato per dolcezza poetica, rende il modesto copione ancor più pretestuoso.
Orfano dello schietto ingegno profuso nella commedia politicamente scorretta Le amiche della sposa, in grado di dare il benservito a qualunque piega patetica grazie anche alla trascinante grinta recitativa di Melissa McCarthy, l’involuto regista statunitense Paul Feig si attiene al progetto originario. La sua scrittura per immagini, che stenta ad abbinare i vani colpi di gomito affidati ai programmatici slow motion e agli ovvi deep-focus, con l’attenzione alla parola dei Maestri della Nouvelle Vague, non lascia certo il segno. Anzi: la smania di veicolare l’interesse del pubblico verso dettagli emblematici, capaci di fornire nel corso del racconto un ampio margine d’enigma allo scopo di sostenere l’effetto sorpresa a favore dell’agnizione conclusiva, palesa l’assenza dell’idoneo ritmo narrativo.
Il passaggio dal fatuo al tragico persuade anche meno del ricorso al rallentatore per permettere allo spettatore di raccogliere, insieme alle idee, gli emblematici pezzi di un puzzle incentrato sulla segreta complicità nutrita nella giungla metropolitana del capoluogo britannico. L’interazione tra habitat ed esseri umani, a dispetto dell’indubbia necessità espressiva dei reiterati campi lunghi, sa comunque di vecchiotto.
Il vero tallone d’Achille, spiace sottolinearlo, risiede, tuttavia, nell’interpretazione sopra le righe della stessa Emma Thompson nei panni dell’immusonita protagonista. La grande attrice inglese, priva oggigiorno della ricchezza di sfumature impressa al ritratto dell’orgogliosa ed elegante Margaret Schlegel in Casa Howard di James Ivory, traccia il profilo dell’esule proveniente dall’ex Jugoslavia sulla scorta di una palese deformazione caricaturale piuttosto fuori luogo. La sua Petra, che sciorina battute al vetriolo nei consorzi domestici in seno a una famiglia rigidamente disfunzionale, anziché garantire nerbo ed estro mordace alla ricognizione d’ascendenza bergmaniana degli anfratti intimi finisce per vanificare persino il mansueto impasto d’ironia e mestizia.
L’interprete londinese Emilia Clarke, nel ruolo dell’inquieta ma prodiga figlia Katarina detta Kate, che sbarca il lunario in attesa di poter cogliere la palla al balzo e imporsi come cantante, risulta assai più persuasiva. Merito anche dell’accuratezza dei costumi e dell’idonea cura dei dettagli rivelatori. Peccato che l’incantevole semplicità degli elementi ambientali sacrifichi la vena elegiaca dell’inizio per far posto all’accidia delle trovate attinte all’estro altrui. L’accozzaglia dei plagi, camuffati da omaggi, se la cava a buon mercato solo ed esclusivamente agli occhi delle platee poco scaltrite. Quelle meno ingenue non si sentono certo dei geni nel cogliere al volo gli evidentissimi echi di Rocky, Fight club e A beautiful mind.
Oltretutto, l’effigie di determinate location, dalla romantica ed evocativa pista di pattinaggio al Blackfriars Bridge ricoperto d’oro, si concentra unicamente su dei valori pittorici di facciata che svolgono un’azione diegetica di scarso spessore. La scadente varietà di toni, dipanata dai vanagloriosi movimenti di macchina al pari di un’aguzza contaminazione dei generi, rimesta alla bell’e meglio il fiele agli zuccherini.
In seguito alla chiusura del cerchio, stabilita dalla risaputa liturgia dei fugaci flashback, l’ostinata punta di spina del dolore, frammista alla doccia scozzese dovuta a un colpo di scena già largamente collaudato da film avvezzi sia all’aura contemplativa sia alla virtù dell’immediatezza, cede la parte del leone all’esecuzione sonora dell’insigne brano che dà il titolo al film. Lo scandaglio degli umori sottopelle dei senzatetto, vicino ai quali la rediviva protagonista si esibisce vestita da elfo, muta allora segno.
Il turnover con i tratti distintivi dei musical, che spingono il pubblico sedotto dall’innocente atmosfera natalizia afferrata in zona Cesarini a sciamare dalla sala intonando le tenere parole del celebre motivetto di Last Christmas, non giova affatto alla piena riuscita dell’intreccio. L’approdo dell’ottimismo conforme al senso compiuto dell’interludio festivo, con i fronzoli psicologici lacerati dapprincipio dall’eccesso macchiettistico, reclama il diritto alla felicità al posto di quello votato all’elezione stilistica. Ci potrebbe pure stare se, invece di sbozzare prima alla brava un apologo sulla dinamicità interiore, il giocondo dinamismo del lungometraggio avesse subito preso piede per fondere i motivi spettacolari con quelli schiettamente rasserenanti.
Massimiliano Serriello
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