La decisione di uscire dalla propria comfort zone, rappresentata dal profondo attaccamento a Milano, paragonabile per certi versi a quello che lega Woody Allen a New York e in particolare al distretto di Manhattan, costituisce per il garbato ed esperto regista meneghino Silvio Soldini un impasse o una sfida vinta?

La correlazione effettiva tra habitat ed esseri umani passando dai personalissimi vincoli di suolo dispiegati nei tempi in cui viviamo, contrassegnati spesso dalla sprezzante egemonia della materia sullo spirito, al condizionamento ambientale ricongiungibile all’epoca del Terzo Reich comporta l’incombenza di tradurre sul grande schermo il libro Le assaggiatrici redatto da Rossella Postorino, sulla base dei fatti realmente accaduti alla segreteria tedesca Margot Wölk, scelta insieme ad altre quattordici giovani donne allo scopo di perlustrare il cibo cucinato per Adolf Hitler nella cosiddetta “Tana del lupo”, senza poter attingere alla conoscenza intima dell’argomento in questione.

È comunque interessante analizzare il modo in cui Soldini ha adattato l’arduo tema, d’ordine in primo luogo storico e sociale, alla propria scrittura per immagini. Rinvenibile nella prevalenza dei semitoni sugli accenti, nel paesaggio riflessivo familiare connesso alla scoperta dell’alterità – ritenuta remota, annidiata al contrario dietro l’angolo – e nell’indubbia capacità della geografia emozionale di trarre partito dall’economia formale. Aliena all’adescamento dell’iperbole dei mélo di maniera. Il timbro solenne dell’incipit introduce gli spettatori in un’atmosfera d’attesa che sembra allineare il congeniale lavoro di sottrazione, attinto da sempre all’assoluto nume tutelare Robert Bresson, nei binari dello scontato processo d’impregnazione dei sospiri, degli sguardi, della gamma di stati d’animo frammisti agli spazi domestici. Dove Rosa Sauer, alterego della sventurata Margot, vagheggia l’utopico ritorno del marito, ingegnere divenuto soldato, dal fronte russo insieme agli anziani suoceri. Alla prevedibile interazione tra interni disadorni ma carichi di senso ed esterni panteisti, con la foresta del piccolo paese della Prussa orientale a un tiro di schioppo, corrisponde lo scolastico mix di suoni diegetici, conformi al clima d’austerità degli affreschi rigorosi, estranei quindi a qualsivoglia enfatico surplus, ed extradiegetici. Scanditi dalla musica cara, invece, agli spettatori bisognosi d’impennate espressive. Appare presto evidente dall’effigie della tavola, dei pasti frugali, consumati però all’inizio col piglio avido di chi teme di patire i morsi della fame nell’immediato futuro, della cornice rurale che Soldini, diversamente dall’alacre Postorino recatasi nei posti attigui alla caserma di Krausendorf dove l’immusonito gentil sesso dovette fungere da cavia per sottrarre il temuto Führer all’eventualità dell’avvelenamento, stenta ad approfondire gli stilemi del cinema esistenziale lontano dai soliti punti di riferimento. Reperiti dalla versatile editor Postorino immedesimandosi nello stream of consciousness d’una moglie ancora nel fiore degli anni costretta a pagare dazio alla condizione da gregaria ed ergo inserita obtorto collo in un manipolo di figure sacrificabili. Sulla scorta d’una fase culminante imperniata sulle scienze etno-antropologiche. Difficili da cogliere ricorrendo sia al trito scacco planetario dell’apologo sul destino amaro, caro da sempre a Soldini, sia all’ennesima opera di giustapposizione tra quadri nevrotici ed enfasi sentimentale.

L’itinerario dissolutivo esibito con Le assaggiatrici sul piano innanzitutto psicologico ricava infatti poca linfa dalla vana distanza oggettiva. Dovuta più alla conoscenza superficiale della vicenda portata ad effetto che all’impresa speleologica. Che necessitava del giusto distacco per ghernire i palpiti di passione annichiliti dagli aspetti clinici. Connessi all’improntitudine degli uomini di potere colpevoli di servirsi dei profili di Venere alla stregua degli animali da laboratorio. I volti neolitici dei contadini di Gross-Partsch, le risapute inquadrature di profilo, la tensione crescente da copione, il pedinamento d’ascendenza zavattiniano, anziché confermare le doti di ragguardevole finezza dell’involuto autore lombardo all’estero, rientrano nel mero mestiere dei fittizi aedi nel buio della sala. Piuttosto carente sotto l’aspetto dell’invenzione scenografica. Imprescindibile per illuminare e impreziosire, con buona pace delle idee prese in prestito, il clima immersivo dell’assunto. Appaiono maggiormente persuasivi in quest’ottica i nervi sottesi delle creature muliebri piegate agli angosciosi test culinari, con le reazioni mimiche sugli scudi, dinanzi al pugno duro a tavola. Per spazzolare ogni briciola in linea coi dettami delle SS. Peccato che la lettura d’una melensa missiva del coniuge con l’ausilio della roboante voice over sconfessi in un ingannevole crescendo l’opportuna interazione tra rarefazione ed enunciazione. Caratterizzata dalle schiave dell’attanagliante test alla mensa del quartier generale dapprincipio impassibili. Sulla falsariga delle officianti d’una severa cerimonia. Celebrata però a furia di ricette vegetariane. In seguito scioccate di fronte alla liturgica reiterazione giornaliera delle pietanze ad alto rischio. A lungo andare le corde ritorte della suspense, lì per lì trattenute dalle modalità di ricomposizione del cavallo di battaglia dell’artefice nostrano, ravvisabile nel sottosuolo dei gesti della gente semplice prigioniera degli eventi complessi, pregiudicano il carattere tenace e misterioso della poesia. Che cede dunque la ribalta al carattere sbrigativo ed effimero dei muscoli del volto di ciascuna prigioniera dell’allarmante banchetto quotidiano soggiogati agli spasmi emifacciali e alla manifestazione fisiologica dell’accoppiamento furtivo nel fienile di casa della scalpitante Rosa con l’ufficiale nazionalsocialista responsabile di raccapriccianti esecuzioni ed eccidi di massa nel campo di sterminio affidatogli.

Il ripiego inoltre nelle soggettive stranianti degli horror spuri, che cementano il cupio dissolvi dei logori incubi a discapito dell’amor vitae, sa di didascalico. Quando l’amica ebrea infermiera, adoperatosi a interrompere una gravidanza indesiderata, getta la maschera, esortando il resoconto del romanzo in merito alla coercizione delle colazioni, dei pranzi e delle cene ad alzare davvero l’asticella sulla forza significante della complicità femminile, assurta ad antidoto ai disaccordi tipici delle guerre tra poveri, l’edificazione morale dovrebbe palesare pure nel linguaggio della Settima arte la potenza evocatrice dell’autentico ordine naturale delle cose. Affidato alle sequenze notturne delle querce, dei fusti millenari, degli alfieri di una rinfrancata campagna che non mimetizza più il covo del dittatore agli sgoccioli. Soldini opta, all’opposto, per il desolante panorama di macerie e per la via di fuga insita nella rete ferroviaria preclusa alle ammutinate. Tranne Rosa. Catturata dal pleonastico tableaux vivant dell’epilogo. L’istinto di conservazione, che sovrasta la dignità, non scaturisce da un’osservazione compiuta ed esaustiva. Bensì da un espediente di specie romanzesca. Il risveglio di primavera innescato dall’erotismo e dalla nudità tanto del corpo quanto dell’anima, per sfuggire benché fugacemente all’egida crucca, non s’inchina ai doni supremi del vivere, scalzati dall’uragano di sangue e fuoco congenito a qualsivoglia conflitto su larga scala, né traccia le linee, anche per sommi capi, d’un sogno di libertà, antitetico alla reclusione mentale della pancia piena e dell’orgoglio ridotto allo stremo, ma s’inserisce nell’illustrazione schematica dal fiato corto. La penuria dell’indispensabile respiro narrativo, che talvolta tramuta la Storia in soap-opera e in altri frangenti sublima viceversa gli eventi considerati minimali rispetto alle svolte epocali conferendo al racconto un qualcosa di stregonesco, abbassa l’asticella delle ambizioni. La performance di Elisa Schlott nel ruolo della protagonista plebea dalle gote lentigginose, che ubbidisce ai diktat del regime al crepuscolo e al contempo ruba il cuore all’aguzzino di turno, non arriva nemmeno alla caviglia dell’intensa interpretazione sciorinata incarnando Elisabetta di Baviera, la Sissi immortalata in precedenza per capirci dalla ieratica Romy Schneider all’acme dell’età verde, nella serie televisiva L’imperatrice. Il resto del cast strappa appena una sufficienza. L’ipnotica lentezza dei proverbiali movimenti di macchina abdica ai convenzionali carrelli dal basso all’alto. La conquista elegiaca avvertibile nell’andamento spesso casuale della narrazione con il Bel Paese nelle vesti di teatro a cielo aperto resta in trasferta un’infertile chimera. Le assaggiatrici chiude perciò i battenti trascurando di mostrare per par conditio il fenomeno dello spostamento coatto dai luoghi del film perpetrato dall’Armata Russa nel 1945, sulla scia di un’inaudita ondata di violenza collimata con stupri e assassini a spron battuto, ed espone il carattere geometrico delle inquadrature alle ovvietà di un’impersonale opera su commissione tirata via alla bell’e meglio.


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