Ligia alla conoscenza intima della materia trattata, in grado di appaiare la fragranza del carattere d’autenticità all’elezione ad autrice coi fiocchi attraverso il fermo desiderio di approfondire i topòi di generi cinematografici agli antipodi, l’ambiziosa ed eclettica attrice-regista francese Noémie Merlant passa dall’addio al nubilato in Romania dell’affresco romantico e antropologico Mi iubita, mon amour, contraddistinto dall’emblematica ricerca di qualcosa di estraneo all’ordinario, come la scoperta di una cultura diversa dalla propria, al body horror in chiave muliebre Le donne al balcone – The Balconettes.

Lo scopo della rappresentazione risiede nel riuscire ad amalgamare la forza significante dell’intesa femminile, scandita dallo stessa spontaneità di tratto già esposta nella fatica precedente, insieme ad altri stilemi capaci d’impreziosire sia gli scenari da brividi, coi corpi brutalmente mutilati che invertono la leggerezza dell’amor vitae nel fardello del cupio dissolvi, sia i cospicui omaggi, sparsi a pelle di leopardo nell’ambito dell’intera trama, nei confronti d’inobliabili numi tutelari. Da Pedro Almodóvar in Volver – Tornare ad Alfred Hitchcock nel classico La finestra sul cortile.

Il punto è capire se siano plagi camuffati da omaggi, per allungare il brodo rispetto all’ennesima personificazione del Rischio, della Minaccia, della Repulsione, cara alla vecchia volpe Roman Polański nell’omonimo capolavoro interpretato dalla ieratica Catherine Deneuve, oppure se posseggano effettivamente la legittima valenza degli inchini sinceri nei riguardi della magia della fabbrica dei sogni, attanagliata altresì da raccapriccianti incubi, scevri dalla pigrizia delle idee prese in prestito. Giacché inseriti nell’arguta trasfigurazione d’una storia in cui Noémie Merlant ci mette parecchia farina del suo sacco per raggiungere il nucleo emotivo degli spettatori affezionati chi agli apologhi sulla complicità dei profili di Venere, chi all’abitudine delle black comedy di cogliere le opportune pieghe umoristiche in contesti ritenuti proibitivi, chi al senso d’incertezza insito in ogni thriller canonico, chi all’implicita egemonia dello spirito rinvenibile nel regno dell’illusione caldeggiato da opere intente a indagare sin nei meandri l’enigmatico rapporto degli esseri viventi con quelli che hanno invece coniugato l’esistenza all’imperfetto. Alla medesima stregua dei trapassati ghermiti sotto forma di spettri da Christophe Honoré in L’hotel degli amori smarriti. L’ingresso in scena delle tre amiche del cuore, la disinibita cam girl Ruby fiera di girare in topless a dispetto degli sguardi da lumaconi dei vicini di casa, l’avventizia scrittrice Nicole, decisa a redigere un libro Harmony spiando l’atletico fotografo che abita nel palazzo dirimpetto al loro, ed Elise, l’inquieta attrice, reclutata nei panni di Marilyn Monroe, stanca di sentirsi usata nel set e nell’alcova, palesa l’indubbio affetto per i personaggi. Che nell’arco dell’afosa serata estiva dispiegheranno l’ampia gamma della mobilità espressiva fornitele da Madre Natura sulla scorta d’un gioco fisionomico degno di nota.

L’allegra imprudenza degli sguardi maliziosi connessi all’invito del fotografo free lance a raggiungerlo nel precipuo harem per qualche drink, al fine di stemperare nei segni d’ammicco la tensione accumulata, cede presto spazio all’atroce premonizione dell’abile ed evocativo movimento di macchina da destra a sinistra. L’agghiacciante palingenesi che ne consegue step by step, trascinando la voluttà di lasciarsi andare in danze d’accoppiamento quasi tribali nei nervi scossi dall’imbranataggine di camminare sulle uova e nell’alterazione prospettica d’uno specchio deformante, tramuta il realismo talora rarefatto in un ordinario spettacolo di continui spaventi secondo copione che spingono il diaframma dell’obiettivo, dilatato ad hoc per consentire al pubblico di vederci chiaro nel guazzabuglio in salsa splatter avvolto dapprincipio nel mistero, a intrecciarsi con l’arte di arrangiarsi della psicotecnica recitativa. L’istinto di conservazione dell’avvertita Elise, che trasforma in un baleno il grido d’osceno smarrimento dinanzi alla visione dell’incauto predatore infilzato al pari d’un involtino nel gemito di piacere del sesso per confondere le acque alla curiosa di turno, contribuisce a far cadere le maschere. Il tentativo di stupro, la reazione dinanzi all’abominio scambiato da alcuni maschietti vanesi a corto di coscienza per una prova di virilità, l’oppressione esercitata persino dal consorte in apparenza garbato di Elise, che al dunque nel coito abbranca solo ed esclusivamente la soddisfazione di svuotare i zebedei senza curarsi delle esigenze della coniuge, conducono il sovvertimento dei maliziosi sottintesi nell’esplicitezza, ai limiti della deformazione caricaturale, lungo i binari dell’arcinota critica-pamphlet dai toni grotteschi ed eccentrici.

Le punture di spillo nei confronti dei maschietti, riscattati in zona Cesarini dall’ammissione di colpa dello spettro del molestatore, tentato all’inizio dall’idea di tormentare la coscienza della romanziera provvista di medianità, risultano però assai programmatiche. L’accenno di poesia ad appannaggio della presunta aura contemplativa, che stenta all’atto pratico a sopperire all’enfasi di maniera concernente la morale della favola che sprona le malcapitate ad affrontare a testa alta qualsivoglia evento traumatico, scade nel vieto poeticismo. I paesaggi riflessivi dei luoghi di Marsiglia assurti ad attanti narrativi carichi di significato, con il comprensorio, le viottole, il porto, il mare aperto che si prestano a rimpolpare la correlazione delle protagoniste con lo specifico habitat, innescano, viceversa, momenti debitamente briosi. Anche le performance di Souheila Yacoub, nei panni lì per lì succinti, in seguito violati, dell’instabile Ruby, e di Sanda Codreanu nelle vesti dell’alacre Nicole, appaiono piuttosto azzeccate. Noémie Merlant, brava anch’ella nel ruolo di Elise come in quello precedente della pittrice Arianne in Ritratto della giovane in fiamme di Céline Sciamma, esibisce meno disinvoltura dietro la macchina da presa. In teoria la sceneggiatura, escogitata assieme alla prodiga Céline Sciamma, sembrava permettere all’acerba tenuta stilistica di ricavare linfa dalla palpabile identificazione nelle traversie del terzetto. Nella prassi Le donne al balcone – The Balconettes fatica ad accoppiare il carattere d’autenticità che sancisce la schiettezza dell’ispirazione di partenza al carattere d’ingegno creativo. Saccheggiato ai riveriti Maestri senza eguagliarne mai i colpi d’ala che consentono ai temi ricorrenti di condurre l’orrore del dolore in cima alla vetta della risolutiva ed elegiaca voglia di riscatto razionalizzando l’assurdo.


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