Le ragazze del Pandora’s Box: torna la ‘Smarf’ di Animal Kingdom ad animare copioni malin-comici

Jacki Weaver, memorabile sia in Animal Kingdom di David Michôd nei panni dell’ipocrita ed empia matriarca criminale, piccola di statura, ribattezzata non a caso ‘Smarf’, ma col pelo sullo stomaco, sia nel sapido dramedy Il lato positivo di David O. Russell, a fianco del mostro sacro Robert De Niro, rappresenta davvero una garanzia di successo sul versante della contaminazione dei generi?

Nell’ultima fatica, Le ragazze del Pandora’s Box, disponibile dal 21 Agosto 2020, per quattro settimane, sulle piattaforme streaming Sky, TimVision, CHILi, Google Play, YouTube, Rakuten, Huawei Video e Infinity, l’attrice, divenuta negli anni Settanta l’emblema della New Age del rimarchevole cinema australiano, soprattutto con l’avvincente ed erudito apologo panteistico Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir, si ritaglia finalmente un graditissimo ruolo da protagonista assoluta. Ad affiancarla, come spalla capace comunque di mettere le carte in tavola sciorinando una prova recitativa degna di nota nelle vesti scollacciate di una ragazza madre dai modi sboccati, in attesa però d’invertire la fausta rotta, c’è Lucy Liu.

Il confronto in chiave muliebre, che richiama tuttavia sin troppo palesemente a Voglia di tenerezza, senza mai raggiungere le stesse punte di grazia, tanto nei risvolti faceti ed energici, concernenti l’intesa femminile, quanto nell’irrompere dell’angoscia, risulta, quindi, all’acqua di rose. Certamente la sequenza in cui l’indomita vecchietta Maybelline, direttrice del coro in una chiesa battista del Texas, rende pan per focaccia al bruto colpevole di spezzare l’incantesimo alla ragazza intenta a sognare ancora il principe azzurro, con buona pace degli improperi lanciati a mo’ di scudo protettivo, strappa qualche sorriso di approvazione.
Che rientra, in ogni caso, nella norma degli esornativi segni d’ammicco. Pure il ritratto d’ambiente resta in superficie. Il mach-cut visivo e sonoro che accoppia le canzoni intonate nel Drag Queen Club di San Francisco agli inni al Signore nel profondo sud degli Stati Uniti, rimarcando ovvi contrasti, sembra andare a caccia di grilli. Menando il can per l’aia in attesa, se non di un autentico giro di boa, almeno d’una svolta. Affidata, chiaramente, allo spettacolo della recitazione. In cabina regìa l’involuto Thom Fitzgerald, ormai dimentico della sagacia espressiva esibita nella dinamica ed empatica commedia Cloudburst – L’amore tra le nuvole, mette il carro davanti ai buoi. La notizia della precoce dipartita del figlio gay, rinnegato dai genitori per aver contraddetto gli ammaestramenti ricevuti, evidenzia la pigrizia delle idee presi in prestito. Specie da Gente comune di Robert Redford.  Le componenti manieristiche, ulteriormente svilite dall’assenza d’ingegno personale, vanificano persino alcuni insoliti movimenti di macchina da destra verso sinistra. In grado dapprincipio di travalicare l’infecondo déjà-vu.

 

Il dietro le quinte dello sregolato locale ereditato da Maybelline, decisa a prendere coscienza delle pecche commesse, acquista negli scorci umoristici, benché scontati, ciò che perde sotto l’aspetto dell’approfondimento interiore. Mentre i ritratti intimi, ingentiliti dal calore umano inciso alla cura dei particolari in filigrana, sull’esempio di Bruce Beresford in A spasso con Daisy, offrono uno svago apprezzabile, aggiungendo un tenero tocco romantico all’acre carattere d’autenticità d’ogni semitono, l’effigie delle arcinote luci degli ingannevoli riflettori presenta diverse scollature. La realtà emersa nei camerini, prima della fatidica apertura del sipario, lascia segni brevi. Le indecisioni, gli scherzi, l’altalena di scoramento ed euforia, i numeri musicali, a caccia della forza significante dei timbri catartici, pagano dazio al risibile appeal delle figure di fianco. Malauguratamente preferite all’emblematica dissonanza ritmica che avrebbe consentito al sapore della satira di sopperire all’enfasi di circostanza. L’alto tasso di saccarosio, dovuto invece ai cascami retorici, trascina l’ennesima parabola sul ravvedimento e sulla tolleranza lungo gli arcinoti binari del pistoletto edificante. Nonostante il mix di suoni intradiegetici ed extradiegetici trascenda l’inane carineria, garantendo un’analisi attendibile e sensibile alla radice degli affetti riposti nel desiderio di emozionarsi per le note di pianoforte, l’inopportuna prevalenza dei morbidi accordi sugli allegorici disaccordi, cari al sagace Woody Allen, la dice lunga.

Specie in merito alla discutibile predilezione per la banale smielataggine. Che, ribaltando le prospettive sarcastiche garantite dalla spontaneità di tratto e dai silenzi eloquenti allo specchio, restio a mentire pietosamente, cerca di promuovere le caricature dell’incipit ad appassionanti individualità. Gravide di rabbia, impulsi dicotomici e fiducia nell’avvenire. Il nucleo concettuale dispiegato in Le ragazze del Pandora’s Box attraverso le offese giornaliere sconfitte sulla scorta del sostegno della premurosa Maybelline, alla quale Jacki Weaver dona la consueta sapienza mimica, incastona gli snodi narrativi nel solco del racconto di formazione. Piuttosto ruffiano nell’insistere ad appaiare alla svelta andatura dell’operetta i meditabondi tormenti del mélo. Lo sfondo scenografico, privo della tensione scenica adatta a dare lustro ai compositi climax, sviluppati in modo disuguale, tradisce la velleità di garantire estro formale al flebile scandaglio descrittivo. Con il risultato di convertire lo slancio progressista della critica sociale in programmatici schemi che sanno assai di vecchiotto. Se non proprio di decrepito. La flebile valenza contenutistica, che passa dagli spunti attinti alla bell’e meglio al documentarismo lirico ad aneddoti regrediti, step by spep, in vacui siparietti, certifica gli intoppi del racconto. Che spinge all’applauso il pubblico dai gusti semplici. Pago dell’onesto intrattenimento. E scontenta, al contrario, gli spettatori desiderosi di assistere a una visione che non replichi i vezzi d’illustri precedenti e indaghi, con ironia ed empatia, sul reale. Anziché trascinarli nell’irreale.

 

 

Massimiliano Serriello