LE RECENSIONI DI MONDOSPETTACOLO: SPACE STATION 76

Da quando esiste il cinema, la fantascienza è sempre stata fatalmente visualizzata con gli occhi degli spettatori (e registi) delle varie epoche. Gli astronauti di Meliès avevano il cappello a cilindro, la città di Metropolis era solcata da dirigibili e biplani, le astronavi degli anni ’50 erano tutte a forma di sigaro. Anche gli anni ’70 avevano una modalità visiva ben precisa: navi spaziali e basi lunari i cui interni sembravano sale operatorie e il bianco dominava su tutti gli altri colori (esempi più eclatanti “2001: odissea nello spazio” e la serie TV “Spazio: 1999” che ne riprendeva molte idee visive).
Pertanto l’idea di un film di fantascienza ambientato nel “futuro degli anni ‘70” era decisamente sfiziosa, soprattutto per gli appassionati e cultori delle produzioni di quell’epoca. E il fatto che non fosse un film di fantascienza “serio” ma una commedia era ampiamente perdonabile: al limite poteva essere una variazione sul tema di “Spaceballs”, memorabile parodia firmata da Mel Brooks.
Ma invece, niente di tutto ciò.


In primo luogo una storia che non c’è: lo si potrebbe al limite ribattezzare “astronauti sull’orlo di una crisi di nervi”, ma anche lì vi sono precedenti assai più illustri (tipo il “Dark Star” dell’allora esordiente John Carpenter). Qui invece abbiamo una serie di personaggi che, con interazioni molto limitate tra loro, vivono la loro vita su questa stazione spaziale, ognuno con una nevrosi diversa: il comandante Glenn (Patrick Wilson) che non riesce ad accettare la sua omosessualità nascosta, la sua vice Jessica Marlowe (Liv Tyler) anche lei preda di crisi esistenziali, poi c’è Misty (Marisa Coughlan) con problemi di frigidità e perennemente attaccata allo psicanalista-robot, sua figlia Sunshine (Kylie Rogers) che in preda alla solitudine (è l’unica bambina della stazione) non può contare nemmeno su sua madre, e infine Donna (Kali Rocha) che pensa più ai suoi interessi di donna frivola che al figlioletto neonato. Ma tutto ciò non riesce a tradursi in una trama organica, si va per gags separate con fili conduttori estremamente sottili, e comunque con dialoghi e battute abbastanza scontati e già visti.


Il film sembra poi indeciso a volte sulla direzione da prendere: alcune gag ricordano il già citato “Spaceballs”, e se si fosse riusciti a prendere con decisione quella strada forse il film sarebbe riuscito meglio e si sarebbe notata meno l’esilità della trama, ma il regista Jack Plotnick non è Mel Brooks e nemmeno David o Jerry Zucker.
L’ambientazione è l’unica cosa riuscita: sembra veramente di essere tornati sulla “Discovery” di “2001” o sulla base lunare Alpha di “Spazio: 1999”, e in qualche caso appaiono addirittura dei gadget caratteristici di una certa epoca (per esempio una videocassetta e un View-Master), ma a questo punto non se ne capisce più l’utilità (e in generale non si capisce l’utilità del film).


Già peggio gli effetti speciali per le scene esterne, fatti con un CGI molto economico che ricorda i primissimi esperimenti degli anni ’80 (peccato che negli anni ’70 si usassero ancora i vecchi cari modellini ripresi in matte-shot).
Insomma, un’idea talmente sprecata da far domandare se l’ambientazione sia stata una scelta casuale, con la quale forse si credeva di far ridere. Uno spunto simile in mano ad un Tarantino (se Tarantino si interessasse anche di fantascienza) chissà cosa avrebbe prodotto.
C’è anche una citazione sotto forma di attore: nel ruolo del padre di Jessica vediamo Keir Dullea, storico protagonista di “2001: odissea nello spazio”.

Giuseppe Massari