Le streghe: Robert Zemeckis rilegge Roald Dahl

Da non confondere con l’omonima commedia ad episodi diretta nel 1967 da Mauro Bolognini, Vittorio De Sica, Pier Paolo Pasolini, Franco Rossi e Luchino Visconti, Le streghe – finito in Italia direttamente su piattaforme digitali – altro non è che la seconda trasposizione per il grande schermo dell’omonimo romanzo scritto da Roald Dahl.

Seconda perché già nel 1990 provvide Nicolas Roeg tramite il Chi ha paura delle streghe? impreziosito da una cattivissima Angelica Huston a trasferire dalla carta scritta ai fotogrammi la vicenda dell’inglesino orfano originario della Norvegia che, andato a vivere presso la nonna materna, s’imbatte in una congrega di malvagie megere interessate ad eliminare tutti i bambini trasformandoli in topi.

Inglesino che, trovandoci nella sempre più fastidiosamente politically correct cinematografia a stelle e strisce di questa prima metà del XXI secolo, sotto la regia di Robert Zemeckis assume le fattezze dell’afro-americano Jahzir Bruno, immerso nell’Alabama del 1968 insieme ad una nonna dai connotati della vincitrice del premio Oscar Octavia Spencer.

Mentre, tra uno Stanley Tucci manager di un lussuoso albergo e una ricca colonna sonora di hit sixties spazianti da Reach out (I’ll be there) dei Four tops a It’s your thing degli Isley brothers, è Anne Hathaway ad incarnare la Strega Suprema, che riunisce in un sfarzosa località balneare le fattucchiere di tutto il mondo, sotto copertura, per portare a termine i propri malefici piani.

Fattucchiere che, appunto, non sono donne ma demoni in forma umana, al servizio di una sceneggiatura a firma del regista stesso insieme a Kenya Barris e a Guillermo del Toro, rientrante tra i produttori al fianco dell’Alfonso Cuarón annoverante nella sua filmografia dietro la macchina da presa I figli degli uomini e Gravity.

Sceneggiatura mirata a ricordare che non bisogna mai rinunciare a ciò che si è dentro, scandita da una voce narrante che si sarebbe potuta tranquillamente evitare rientrante, di conseguenza, tra gli aspetti tutt’altro che convincenti de Le streghe.

Perché, se da un lato il ricorso alla CGI rende quasi cartoonesco ciò che Roeg inscenò in chiave a suo modo horror grazie ad efficacemente artigianali effetti speciali di trucco, dall’altro la noia non tarda a farsi viva.

Tanto che a circa tre quarti d’ora dei centoquattro minuti totali di visione si avverte facilmente il desiderio di approdare presto ai titoli di coda, e, sebbene la mutazione dei piccoli protagonisti nei roditori di cui sopra sembri movimentare la situazione facendoli apparire in un certo senso quali derivati di Un topolino sotto sfratto o Stuart Little – Un topolino in gamba, il tutto non decolla affatto.

Complice soprattutto la freddezza generale di un’operazione a base esclusivamente di cura estetica e che testimonia come l’autore di Ritorno al futuro e Forrest Gump sia sempre più ridotto a mestierante della poco fantasiosa Hollywood del terzo millennio, risucchiata nel riciclo delle idee già sfruttate, tra remake, trasposizioni di opere letterarie e tardi sequel/reboot.

 

 

Francesco Lomuscio