L’hotel degli amori smarriti: le ben note scene da un matrimonio trasferite in un albergo pazzarello

Persuaso di aver ormai acquisito la maturità professionale per accrescere in cabina di regià la suggestione del punto di convergenza tra immagine e immaginazione, che manda in sollucchero tanto i cinefili del sabato sera quanto gli espertoni della domenica pomeriggio, Christophe Honoré resta più incisivo come commediografo teatrale. Anche nelle vesti di critico, schiavo dell’impressionismo personale che secondo Alberto Pezzotta spinge gli intellettuali prezzolati, o quelli, ancor peggio, presunti tali, a cercare domicilio in casa altrui.

Il suo ultimo film L’hotel degli amori smarriti lo conferma per intero. La prova maggiormente schiacciante risiede nel ricorso alla cosiddetta oggettiva irreale. Qualcosa che sul piano teorico sembra perfetta per rileggere Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman in chiave surreale senza cadere nell’infecondo copia e incolla, ma stona all’atto pratico. A convincere, invece, è, guarda caso, il ripiego, piuttosto scontato in ogni caso, negli stilemi del cinema da camera. Che ha così tanti debiti con il teatro da giustificare il bisogno di mettere in cantiere un’interazione tra interni ed esterni.

Sin dall’incipit, comunque, L’hotel degli amori smarriti cerca invano di realizzare un puzzle fascinoso ed enigmatico per poi svelare i vari pezzi disseminati attraverso soluzioni tecniche ai limiti del ridicolo involontario. Certo non per gli spettatori radical chic che, per partito preso, a dispetto dei sogni d’oro in sala dovuti a una noia di piombo, riconosciuta dall’inconscio di qualsivoglia individuo, che fortunatamente non mente mai, sprecano sperticati complimenti in favore degli autori transalpini. Honoré, a dispetto del cognome e dell’affiliazione alla politique des auteurs propugnata da oltre mezzo secolo dai Giovani Turchi della Nouvelle Vague, pesca davvero nell’ovvio. Nella chambre 212 del titolo originale, infatti, non c’è nulla di nuovo. L’hotel di fronte casa dove la fedifraga Maria prende domicilio quando il marito, cascando dalle nuvole, scopre una delle sue innumerevoli infedeltà, alla base di una trama che confonde il contrassegno di un’umanità arida con lo straniamento caro a Bertolt Brecht, riletto perciò alla buona, non tiene gli spettatori legati alla poltrona. La sequenza in cui gran parte degli amanti dell’insaziabile donna di mezza età si materializza, anziché stimolare un’analisi sensibilissima degli stati d’animo sull’agile scorta dell’impronta onirica, scopiazza sottobanco una trovata degli artefici della serie tv Beverly Hills 90210. Con il bel tenebroso Dylan McKay che, nei meandri della propria mente, in coma, tra la vita e la morte, vagheggia una stanza zeppa d’infiniti profili di Venere. Tutte sue conquiste.

Altro che Bergman! Pure il multiplex sotto l’albergo sembra preso di sana pianta da quello che permette al personaggio interpretato da Kevin Costner nel fantasy L’uomo dei sogni di scoprire di aver compiuto un viaggio nel passato alla Ritorno al futuro notando una sala che proiettava Il padrino. La voluttà di mostrare a bella posta l’abitudine alla finzione che impera nei set, ed è insita nell’atto stesso di recitare, per rendere omaggio in tal modo all’incantesimo della sospensione dell’incredulità, conforme, paradossalmente, all’irrompere delle penombre psicologiche per mezzo dell’ironia acre ed erosiva, fa acqua da tutte le parti. Lo smarrimento del pubblico costituisce, per inciso, un obiettivo perlomeno discutibile. L’arma dell’umorismo, inoltre, è usata a scartamento ridotto invece di essere dispensata a piene mani. L’hotel degli amori smarriti appaga così solo il senso estetizzante dell’artefice, convinto di poter attinge ad altisonanti numi tutelari, da Leo McCarey a Woody Allen, nascondendo il debito contratto con i meri artigiani.

Le pretese artistiche, ravvisabili nello scambio temporale delle coppie, col marito anziano che litiga con la moglie da giovane, e viceversa, sebbene eludano lo scoglio dei racconti consolanti ed evasivi, restano sull’albero a cantare. A dispetto dell’indubbia destrezza recitativa di Chiara Mastroianni, che nel ruolo di Maria non trova nessuno in grado di tenerle testa, l’effigie della consorte traditrice, adagiata sul letto, col lato b in mostra, in maniera pressoché identica a Charlize Theron ne Le regole della casa del sidro, paga lo scotto all’impasse della somiglianza delle figlie coi papà: è troppo simile al compianto genitore Marcello per uguagliare la muliebre carica erotica dell’illustre collega. Il desiderio, perciò, di ottenere un extra di lodi con atri e soggiorni colorati, alcove evocative, movimenti di macchina di traverso ed echi espliciti si scontra con i plagi nascosti nei confronti del mainstream. L’hotel degli amori smarriti resta un intruglio che c’entra poco con Molto rumore per nulla di Shakespeare. Almeno il Grande Bardo è stato risparmiato dal déjà-vu che accenna a malapena qualche sorriso liberatorio.

 

 

Massimiliano Serriello