Little Joe: storia di un fiore che non sboccia

Dopo Lourdes e Amour fou, con cui riuscì ad amalgamare la compostezza formale della messa in scena al tumulto dei sentimenti romantici scandagliati sulla scorta dell’indubbio acume psicologico, l’abile regista viennese Jessica Hausner si guadagna nuovi applausi accostando ancora in Little Joe elementi stilistici ed evocativi specularmente opposti.

La critica intellettuale, che l’applaudì nel 2019, quando fu presentato al settantaduesimo Festival di Cannes, è lieta per l’uscita in sala. A dispetto di chi mugugna in merito alla fredda radiografia esistenziale posta in essere senza tener conto dell’immediatezza espressiva gradita al grande pubblico. L’accumulazione straniante dell’aura ascetica, che da una parte rende faticosa la lettura dell’altera ed erudita scrittura per immagini e dall’altra la distingue dai prodotti a corto del carattere d’ingegno creativo, innesca inidonee pose snob?

Pure se fosse, la colpa non sarebbe da attribuire alla ricercatezza. Ammesso che la ricerca, invece di risultare fine a se stessa ed ergo cadere nell’impasse dell’autocompiacimento, tramuti l’indeterminatezza in determinatezza. Dando nerbo e consistenza alle astratte inquietudini d’ordine filosofico. L’emblematica vicenda del fiore privo della facoltà di riprodursi, ribattezzato Little Joe dalla ricercatrice Alice in omaggio al figlio adolescente, stenta ad assorbire la maestria tecnica degli autori in possesso del polso necessario ad approfondire la valenza traslata connessa alla direzionalità dello schermo. L’effigie capovolta dall’alto della serra dell’incipit, dove il ribaltamento prospettico aggiunge poco o niente al senso di smarrimento che accompagna da sempre certe parabole avveniristiche, appaga quindi l’inane coinvolgimento estetico. Ma ingenera pure aspettative rivelatasi in seguito inappagate. La mancata palingenesi dei raggelati timbri figurativi in palpitanti controcanti introspettivi, sull’esempio dell’estroso Stanley Kubrick, impedisce alla pur ambiziosa Jessica di varcare la soglia del mero mestiere. Le residue velleità, ravvisabili ora nei continui carrelli laterali, ora nei vani movimenti di macchina in avanti, avvezzi ad andare oltre l’inquadratura a due per esibire in chiave metaforica il vuoto tracciato dall’incomunicabilità, impediscono l’appassionata adesione del pubblico estraneo agli inutili arzigogoli mentali ad appannaggio dell’autocrate, nonché ridicolo, Professor Guidobaldo Maria Riccardelli.

Le presunte platee dal palato fine, fiere di ergersi ad antidoto contro gli incompetenti Fantozzi di turno, hanno forse apprezzato l’interazione tra suoni diegetici ed extradiegetici e la palesa strizzatina d’occhio nei confronti del montaggio delle attrazioni, concepito dal dotto Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, con lo stravolgimento espressionista di alcuni rumori sinistri. L’infertilità di Little Joe, il mesto mutamento del cane dell’anziana collega Bella, i faccia a faccia smentiti, le disquisizioni in ufficio, per svelare l’arcano concernente gli effetti nefasti dell’ingrato bocciolo, stentano però ad accrescere sul serio il nocciolo drammatico dell’assunto. Quantunque l’implicito lavoro di sottrazione, adottato per impedire alle soluzioni convenzionali e manieristiche di prendere il sopravvento, cementi i motivi d’insicurezza, conferendo un ulteriore alone di mistero all’ampio margine d’enigma, l’irrinunciabile diritto alla fantasia risulta bandito. Le anaffettive dinamiche dei personaggi avrebbero acquisito un ruolo di rilievo se a precederli ci fosse stato un calore umanitario. Destinato a disperdersi con l’intreccio di piste colme d’immane disillusione ed estremo scoramento. Il gioco geometrico dell’intrigo impone al contrario di mettere dapprincipio il carro davanti ai buoi. Con una sarabanda di baci negati, mascherine onnipresenti, recettori olfattivi immersi nella più vieta solitudine. Ben lungi dal divenire al contempo sia ragione di spettacolo sia oggetto di analisi. D’altronde Little Joe non arriva nemmeno alla caviglia dei seguaci del New American Cinema. Né costeggia alla bell’e meglio la virtù di scavare nei volti delle vittime dell’alienazione.

Seguendo gli stilemi del compianto Ingmar Bergman. In tal modo lo scontro di Alice con il risentito sangue del suo sangue finisce col trascinare nella noia. Sopperita qua e là dall’incisiva apprensione che alberga in seno ai consorzi domestici. Col ragazzetto sensibile all’aria di fronda. Colpa di un fiore che non sboccia. Difeso, nondimeno, dall’ostinata genitrice. Giacché frutto di una peculiare ricerca. La vanagloria di assegnare ai glaciali ambienti – dal laboratorio ai corridoi, dal vivaio allo spogliatoio – il compito, moltiplicandosi, d’inasprire lo smarrimento, dovuto alla piega degli eventi, ne banalizza l’opportuna carica minacciosa. L’intrinseca tragedia greca alla base del plot, per cui l’amor filiale va a farsi friggere contraddicendo l’ordine naturale delle cose, palesa l’assenza delle soluzioni di continuità raggiunte in precedenza. Specie con Lourdes. Al posto dell’apologo sul bisogno di credere ai miracoli e sui rischi del miraggio, contemplato dai seguaci dello spirito, prevale la gelatina. Nemmeno la materia, quindi. L’ovvia resa dei conti, affidata al livore dipinto sugli occhi della vetusta coltivatrice che arriva a commettere atti omicidi per sconfiggere il cupio dissolvi delle empie pianti, ricava maggior spicco di quello che in effetti merita per mezzo della componente luministica. Intenta, in ogni caso, a scopiazzare l’atmosfera meditabonda delineata da Nicolas Winding Refn in The neon demon. I mutamenti cromatici, associati alla presa di coscienza della biasimevole madre, che ammette in zona Cesarini di preferire la vanagloriosa professione ai legami di sangue, cedono in Little Joe spazio all’atonale prova recitativa del cast, Emily Beecham alias Alice in testa, certificando così l’egemonia del cervello sul cuore.

 

 

Massimiliano Serriello