L’ambizione di realizzare nell’esordio dietro la stimolante ma impegnativa macchina da presa nell’ambito del cinema di finzione un’opera a mosaico, con parecchi spicchi di vita sugli scudi, legati, sia in prassi sia in spirito, al senso d’appartenenza, per congiungere l’opportuna cognizione del reale, frammista ad alcuni zig-zag surreali, alla geografia emozionale, costituisce un’impresa troppo gravosa per un autore avventizio?

Chi è quindi Lorenzo Pullega, bolognese attaccato ai vincoli di suolo, assistente dieci anni or sono dei Manetti Bros ed ergo alfiere della contaminazione dei generi, artefice di alcuni cortometraggi come Calandrino, ricavato da una novella di Boccaccio adattata alla visione odierna della provincia a lui cara, e Gli arcidiavoli, commedia dagli stilemi bizzarri intenta ad aprire lo scrigno a uno studio antropologico della dipendenza comportamentale connessa al mondo della sala di biliardo, insignito del premio alla miglior regia per il lungometraggio L’oro del Reno all’ultima edizione del Bif&St di Bari, l’ennesimo debuttante allo sbaraglio oppure uno che la sa lunga?

I carrelli ora all’indietro ora dal basso in alto nello svelare attraverso prospettive specularmente composite il manipolo di melomani giapponesi appassionati del geniale compositore, poeta, regista teatrale, direttore d’orchestra e saggista tedesco Richard Wagner nonché del primo dei quattro drammi musicali che costituiscono la tetralogia L’anello del Nibelungo, L’oro del Reno, pongono in risalto il lato profondo della ritualità conforme all’aura meditabonda della cultura nipponica anche in veste globe-trotter. Al contrario la panoramica a schiaffo, detta altresì swish pan, snuda l’impasse degli amanti della musica approdati nel Reno dello Stivale anziché in quello della terra natìa dell’incomparabile Wagner. La rievocazione del 1985 persuade comunque poco al pari dell’effigie del complesso orchestrale che si materializza alla stregua del direttore d’orchestra munito di bacchetta con la palingenesi della musica da extradiegetica a intradiegetica. L’idea attigua all’esistenza colta dal vivo coi compositi scompensi, diametralmente opposti rispetto alle banalità scintillanti costantemente sulle labbra degli stakeholders locali in Emilia Romagna, che conferiscono al ritmo del racconto l’efficacia del carattere d’autenticità in linea con la crudezza oggettiva a braccetto col carattere d’ingegno creativo d’una sorta di gioco di scatole cinesi, risulta assai più convincente. Giacché unisce la concretezza immediata d’un apologo fuori del comune sul rapporto tra cinema e territorio alle trovate buffonesche ed eminentemente allegre capaci d’impreziosire la girandola di eventi in apparenza minimali evocati dalla location assurta ad attante narrativo diverso dall’ordinario.

Le modalità esplicative dell’inane voice over sottraggono però forza significante tanto al calore dei sentimenti per il luogo identitario del Bel Paese, alieno all’improntitudine della ieraticità teutonica, quanto ai timbri antropologici ed etnografici dispiegati man mano in quel di Porretta Terme, Vergato, Casalecchio di Reno, Bologna e Comacchio. La faccenda dell’ambizioso regista che vorrebbe girare un documentario sul Reno nostrano in grado di chiarire il mix d’input attuali ed echi passati eletti ad avvolgenti metafore cariche di suggestioni cerca d’accrescere la valenza dell’apposita scrittura per immagini. Sul versante dell’inclusione sociale e dell’evocazione intellettuale. Tuttavia, a ben vedere L’oro del Reno più che richiamare alla mente ricordi ed esperienze degne di nota in merito al fiume che condiziona persino il modo di reagire alle svolte epocali tradisce l’impasse dei nani sulle spalle dei giganti. Coi plagi camuffati da omaggi nei confronti in particolare di Federico Fellini in e di Nikita Sergeevič Michalkov in Oci ciornie. Con la scoperta dell’alterità riscontrabile nella descrizione, ai limiti della caricatura, del luogo di cura dove ricaricare le batterie. L’inclusione sociale è all’opposto suggellata dall’audacia stilistica ed espressiva di accostare le note di Wagner concernenti l’opera relativa al furto dell’oro del Reno perpetrato dal nano Alberich sulla scorta dei risolutori poteri magici ai valzer ballati dalla gente genuina, allergica ai tour nelle terme riempite dagli individui attanagliati dai problemi del benessere, dalla lirica prettamente italiana, dall’interazione tra interni ed esterni in linea coi teatri a cielo aperto chiamati a riflettere l’altalena degli stati d’animo. La morale della favola, esibita papale papale a voce al posto dell’impianto allegorico ghermito in filigrana dall’inizio alla fine, veleggia sull’infeconda superficie.

Ad approfondire l’idea per cui l’oro del titolo è ovunque, addirittura sotto il nostro naso, basta volerlo vedere, tenta di provvedere il passaggio dal litorale all’entroterra scandito dal brano dedicato all’Appennino tosco-emiliano nel quale gli antichi romani tenevano d’occhio l’alta val Parma. Lo spirito di verità si va quindi ad appaiare in maniera piuttosto slegata all’atmosfera evocativa abbozzata dapprincipio alla bell’e meglio. L’alternanza tra sincretismo allusivo ed esami comportamentistici, innescati dal desiderio di smuovere la reminiscenze storica delle svolte epocali riverberate dall’emblematica location mediante la compostezza contemplativa degli eventi minimali coi volti delle donne di diverse generazioni accumunate dall’implicito valore terapeutico dell’umorismo e talvolta dell’autoironia, cede, ahinoi, la ribalta nel momento di rialzare definitivamente il tono del film alle pleonastiche pieghe tragiche riscontrabili nel ritorno all’incanto del mare convertito in un ampolloso deposito d’angosce. Esacerbato da un’inattesa dipartita. La carrellata risolutiva sulla spiaggia, cementata dall’egemonia della piega funerea su quella canzonatoria, lascia il segno nel punto in cui il Reno sfocia nell’Adriatico. Col sottofondo dedicato alle molteplici facce delle foci, delle sorgenti, dei monti, della pianura, del tratto conclusivo. La recitazione dell’intero cast appare troppo scolastica per sostenere il lavoro di squadra giustapposto ai luoghi impregnati di esperienze ed empiti vitali. La visionarietà favolistica, sebbene chiamata in causa in determinati frangenti, esula dalle corde dell’autore inesperto. L’accento della narrazione a mosaico cade quindi alla bell’e meglio su uno spazio in linea teorica attivo ed estroso nello sviluppo della trama. All’atto pratico pretestuoso ed esornativo. L’oro del Reno, a dispetto dei timbri mito-poietici scomodati per assicurare uno status d’autorialità a una tecnica di ripresa ancora acerba, chiude così i battenti tralignando in uno sfondo inerte l’identità specifica. Tutta da scoprire solo ed esclusivamente sulla carta.


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