Il gotico padano è un appuntamento cadenzato nel tempo, un genere che è marchio di fabbrica del maestro Pupi Avati. Il cineasta bolognese, quindi, riprende la macchina da presa per dirigere L’orto americano, che si svolge a cavallo tra Italia e Stati Uniti ed è tratto dal suo omonimo romanzo.
Filippo Scotti, già apprezzato in È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, interpreta un giovane aspirante scrittore che a Bologna, nell’immediato dopoguerra, s’innamora a prima vista di un’ausiliaria dell’esercito americano, la quale era in procinto di trasferirsi a Ferrara. Un sentimento votato all’eternità condensato in un battito di ciglia, racchiuso in uno sguardo e nulla più.

È bastato solo quello per far scattare la scintilla dell’amore, in un tempo in cui i sentimenti si trastullavano tra illusione e desiderio. Un tempo lontano e una società che, seppur si leccava ancora le fresche ferite della guerra, si concedeva pudicamente un afflato poetico, incline all’onirico e al romanticismo del corteggiamento silenzioso. Dopo un anno il giovane, senza aver avuto più alcuna notizia della ragazza, si trasferisce nell’Iowa per cercare l’ispirazione e scrivere il suo primo romanzo. In una notte americana ode urla misteriose provenire da fuori. Guidato da quella che sembra una richiesta d’aiuto, si reca nell’orto della sua vicina, un piccolo appezzamento di terra che separa le due abitazioni, ove fa un’agghiacciante scoperta. Viene anche a conoscenza del fatto che nella casa di fronte, tempo addietro, viveva una giovane di nome Barbara, insieme a sua sorella e sua madre. La ragazza scomparve proprio in Italia e i pezzi del puzzle ricompongono l’identikit della persona di cui si era innamorato. Questo segna l’inizio di un’indagine che lo riporta prima a Bologna, poi ad Argenta, in provincia di Ferrara, per mettersi sulle tracce di Barbara.

L’orto americano è il primo film in bianco e nero di Pupi Avati, in cui la fotografia dell’ottimo Cesare Bastelli esalta le atmosfere alla Hitchcock e omaggia oltre al gotico d’antan (tra i nomi illustri quello del Maestro Mario Bava) il Neorealismo italiano. La suspense non manca e le venature horror presenti nel lungometraggio sono di notevole impatto, tanto che di sicuro saranno a lungo ricordate. Poiché il film si rifà ai classici, non poteva e non doveva avere effetti digitali, ma l’artigianalità che ha fatto grande il genere, e anche qui si distingue in alcune sequenze da brivido grazie alla maestria di uno dei più grandi effettisti del cinema dell’orrore: Sergio Stivaletti. Il soprannaturale, l’onirico e la superstizione si fondono in un’opera che racconta una storia che ha tante facce. La disperazione di una nazione martoriata dal conflitto mondiale, lo squallore dei manicomi, le cui atrocità erano oscurate da quelle della guerra, e un processo a un presunto pluriomicida, massacratore di donne e antesignano degli odierni serial killer, cui presta il volto Armando De Ceccon, davvero magistrale nella sua interpretazione. Il protagonista si imbatte nelle udienze e conosce anche il fratello dell’imputato, portato in scena dal sempre ottimo Roberto De Francesco.

Il rapporto tra i due consanguinei è una miscela misteriosa, pregna di non detti che lasciano allo spettatore di colmare emozionalmente le sfumature di una coppia di figure molto particolari. I loro volti descrivono un retaggio e, specialmente i primi piani su De Ceccon, ci danno il senso della sofferenza, della fame e del vilipendio in un quadro, appunto, neorealista, elevato da un bianco e nero raffinato nella forma e nella sostanza. Un’Italia lacerata dalla guerra si staglia alla perfezione su quel viso, in un contesto che invece vede una storia prender vita dal sentimento amoroso. L’orto americano è un film che ha diverse anime, come dimostra anche la varietà dei personaggi che individua nelle prove attoriali un valore aggiunto. Partendo dal protagonista Filippo Scotti, passando per la signora Squillante, la vicina di casa nell’Iowa incarnata da Rita Tushingham, a Doris, che possiede i connotati di Chiara Caselli, donna con una erre moscia accentuata, tanto distorta e caricaturale, il cui fascino è ammantato da un mistero sospeso. Spiccano, seppur con piccoli ruoli, Andrea Roncato nei panni di un maresciallo dei carabinieri, Massimo Bonetti che impersona il presidente della Corte d’Assise, Nicola Nocella che si presta come paziente psichiatrico e dulcis in fundo Robert Madison nelle vesti del maggiore Capland. Menzione speciale anche per le musiche affidate a Pompeo Iaquone, che rievocano un altro capolavoro del passato: La scala a chiocciola di Robert Siodmak, la cui colonna sonora è di Roy Webb.
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