La trilogia dell’apprezzato ed eclettico regista norvegese Dag Johan Haugerud, incentrata sin dal titolo dei rispettivi film sul sesso, sull’amore e sui sogni ivi connessi, trae partito dalla capacità di esplorare le dinamiche sentimentali ed esistenziali congiunte a ciascuna condizione attraverso una visione del mondo circostante sia romantica sia illuministica.

Il che, di per sé, costituisce una palese contraddizione in termini. Che gli autori con la “a” maiuscola riescono ad arginare ricorrendo alla virtù di razionalizzare l’assurdo, conciliando quindi gli opposti, ad appannaggio della poesia. Mentre i registi eletti arbitrariamente ad autori, senza averne sul siero l’inclinazione spiazzante ed elegiaca, cadono nel mero poeticismo. Dando un colpo al cerchio del punto di vista illuministico, fondato sulla ragione, e l’altro alla botte del controcanto romantico. Imperniato sull’attitudine a credere in quello che non si vede. Nondimeno si sente. Nell’aria. Nella geografia. Nelle persone incontrate strada facendo.

Che atmosfera pervade, per esempio, Love? Il film, ponendosi a metà strada tra il richiamo fisiologico del sesso e l’evasione conforme al sogno, mostra nell’incipit la migliore amica della protagonista femminile spiegare ai turisti nelle prodighe vesti di guida dalla mente aperta il significato insito nelle pose plastiche delle statue che troneggiano a Oslo. Le modalità esplicative della sequenza, estranea all’egemonia morale ed evocativa dello spirito sulla materia, ciurlano nel manico tentando invano di ricavare linfa dal talento di alcuni alfieri della fabbrica dei sogni, come Peter Greenaway in Il ventre dell’architetto, nello svelare le connotazioni fuori del comune delle opere d’arte intente ad operare una sorta di presa di coscienza. Anche, se non soprattutto, nei viaggiatori provenienti da fuori. Equiparati agli spettatori. La variazione dell’angolazione scelta da Dag Johan Haugerud per trarre linfa dal classico pluralismo di prospettive agli antipodi che permette tramite la suggestione romantica agli oggetti inanimati da contemplare di perdere la loro immobilità riverberando animandosi i diversi modi di reagire ai palpiti dell’attrazione chiamata a precedere l’amore vero e proprio, stenta quindi a toccare col debito pudore le ombre impenetrabili nell’anima dell’oncologa Marianne. La sua amicizia con l’infermiere Tor, che le confessa durante il quotidiano tragitto sul battello – al termine della giornata lavorativa – remore ed empiti concernenti i classici colpi di fulmine, attinge alle oscillazioni tra precarietà ed equilibrio care ai Giovani Turchi della Nouvelle Vague. Neanche fossero il pozzo di San Patrizio. La tensione creata quindi dal mix di rigore, determinato dalla ragione, ed emozione, dovuta ai soprassalti romantici, che sconfessano nei fatti le sentenze azzardate con le parole in libertà, dovrebbe creare un cortocircuito in grado di riallacciarsi appieno al richiamo citazionistico iniziale alla forza allegorica delle marmoree icone. Contrapposte ai trasporti pubblici, all’effigie del molo, all’ordine naturale delle cose rappresento dalle coste e dalle rocce, alle carezzevoli insenature, alle masse d’acqua dove immergere il corpo muliebre con uno scaltro sconosciuto.

Il ritorno alla realtà, determinato dalla confessione del predatore di passaggio infedele alla consorte, sciorina un apprezzabile carattere d’autenticità. Al quale Dag Johan Haugerud cerca di accoppiare il carattere d’ingegno creativo necessario a trasformare una vicenda prevalentemente di ciance nella morbidezza d’immagini cariche di senso. Che trascendono le vane inflessioni del mélo da rotocalco rosa per mezzo dell’assoluta virtù di scrivere con la luce. L’inadeguata gamma cromatica, al contrario, ben lungi dal convertire i valori figurativi in valori introspettivi, conferendo altresì all’aleatorietà di molti scorci generici del panorama la determinazione dei paesaggi riflessivi dallo charme fatalistico, che influenzano persino i modi di reagire dell’incerto Tor con l’altra sponda, veleggia in superficie. Il chiodo fisso dell’omosessualità in possesso secondo Dag Johan Haugerud d’una singolare sensibilità, della dottoressa che sa tranquillizzare gli impressionabili pazienti nella cura dell’atroce tumore ma non sa donare speranza a sé stessa, dei rapporti occasionali frammisti ai legami duratori, della spontaneità svilita dalla predominanza del volere provare piacere, preceduta dall’incanto, concluso dal disincanto, sull’inclinazione a dare piacere, concorde con la fiducia cieca nel destino propizio, paga dazio alla mesta incognita della noia di piombo. Ad alleggerire e, al contempo, ad approfondire l’ambaradan, senza farsi bello con le penne del pavone saccheggiando l’estro in merito a vicende simili di Richard Linklater in Prima dell’alba ed Eric Rohmer nei diversi capolavori realizzati sull’incertezza dei sentimenti, occorreva un autore vero. Abituato a mettere della farina del proprio sacco nel bisogno fugace degli inguaribili romantici di beneficiare d’una controprova d’ordine pratico. In linea coi concetti illuministici. Dag Johan Haugerud non cade in contraddizione: la percepisce appieno. Però si limita a confinarla in una coroncina di situazioni stereotipate. Invece d’incanalarla nelle ennesime traversie minimali delle storie allergiche al dinamismo dell’azione tirando in ballo i massimi sistemi.

Non è certo sufficiente escogitare un finale arioso e spiazzante per uscire dal guscio di un’osservazione psicologica monotona. Impartendo una lectio magistralis sul mosaico di sensazioni dominate da impulsi diametralmente opposti tra loro. A Dag Johan Haugerud interessa poco risolvere l’enigma e svelare l’arcano al riguardo. Gli preme piuttosto frugare nel territorio amico, nella vena rapace degli abitanti narcisisti, nello stream of ora giocondo ora straziante che anima chi nonostante tutto crede nell’amore. L’operazione lo porta a trattare gli spettatori cinematografici alla stregua dei lettori degli ormai scontati romanzi a tema. Con il risultato di rispondere picche alla necessità del pubblico affamato di visioni scevre dal copia e incolla d’appassionarsi a vicende scandite dalla vertigine mentale d’indicativi ed eruditi carrelli dal basso all’alto. Che trovano spazio solo ed esclusivamente “a candele smorzate”. Quando cioè è troppo tardi per inserire i personaggi in una cornice che cinge lo slancio insieme a ogni piega, interiore ed esteriore, dell’habitat di appartenenza. La prova di Andrea Bræin Hovig nel ruolo di Marianne, seppur degna di nota nell’esibire con gli eloquenti silenzi l’altalena degli stati d’animo della dottoressa dalla sfera privata inquieta, non basta ad andare oltre i logori schemi del risaputo plot. Tayo Cittadella Jacobsen nei panni di Tor replica con una performance pervasa di attese, di sorrisi, di sospiri, di musi lunghi, d’impennate melense. Che pregiudicano la chance di sostituire l’inane portavoce dei pietistici ammiccamenti con la supremazia dell’alienazione sancita dalla contemplazione. Love, a causa altresì della chiusura aliena alla solita solfa, volta ad accrescere il rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato, attraverso la barbosa insidia dei tira e molla concepiti alla buona sciupa con un significato banale una questione complessa che andava trattata con leggerezza ed empatica sottigliezza.


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