L’arduo ed emblematico passaggio dal cinema documentario al film di finzione, avvenuto otto anni or sono con l’affresco d’impegno civile Il cratere conferendo alla logica della grigia realtà sia il surplus dell’eco dell’inobliabile mélo a sfondo sociale Bellissima di Luchino Visconti sia uno scandaglio scevro dalle idee prese in prestito dei precipui vincoli tanto di suolo quanto di sangue, spinge l’affiatata coppia di registi costituita da Luca Bellino e Silvia Luzi a imprimere alla loro seconda fatica, Luce, la marcia in più sul piano dell’opportuna sapienza ritrattistica.
Che nel previo apologo nudo e crudo sulla classe operaia Dell’arte della guerra aveva dovuto pagare dazio all’impossibilità d’inserire la vicenda dei quattro stakanovisti asserragliati su una gru per impedire lo smantellamento dell’obsoleta fabbrica nel solco dello spettacolo dell’accattivante recitazione, gradita al pubblico dai gusti semplici incline a partecipare visceralmente alla trama identificandosi nei personaggi supportati dal carisma degli interpreti, nonché nell’ampio spettro di soluzioni espressive conformi alla frontiera del vero e della menzogna. Cara agli spettatori maggiormente avvertiti.

La contemplazione del reale di Luce, quindi, forte della capacità di trascendere gli elementi attestativi della fabbrica dei sogni, snuda gli incubi ad occhi aperti d’una giovane donna senza nome che cerca di vederci chiaro e di sentire bene nel claustrofobico nonché assordante contesto del paesino irpino di Solfora. Mentre la geografia emozionale, rintracciabile chiaramente nell’interazione con l’attanagliante habitat, non riesce ad assicurare all’ermetico ritratto femminile preda dell’alienazione, seppure nel fiore degli anni, la virtù di trasportare qualsivoglia platea, dall’indole lacrimevole o dal ciglio asciutto, in un’atmosfera riflessiva, in cui l’orrore dell’isolamento stringe alla gola il senso d’appartenenza e la piena visualizzazione dei sentimenti, il ricorso costante al deep focus non fa una piega. Perché, traendo partito dalla destrezza introspettiva ed evocativa dell’estroso László Nemes ne Il figlio di Saul col sonderkommando che smette di collaborare con le autorità del Terzo Reich per cercare la carne della propria carne nell’orrido lager tirando dritto dinanzi ai funesti scenari sfocati ai lati, il cosiddetto effetto Bokeh ottenuto riducendo al lumicino la profondità di campo per mezzo dell’apertura ad hoc del diaframma riverbera in modo piuttosto chiaro la concezione dell’assenza. Convertita dall’astratto al particolare, anziché con il canonico processo d’intensa sintesi del montaggio alternato, tramite l’oltranzismo stilistico dell’erudito long take. Maneggiato al meglio grazie altresì all’apporto dell’assoluta verve recitativa salvaguardata dalla talentuosa Marianna Fontana.

Una Marianna Fontana che nel ruolo dell’agitata ed empatica protagonista, impiegata in una fabbrica di pelli stando in piedi insieme alle colleghe munite a iosa di saggezza popolare davanti alla pressa meccanica per sistemare i pezzi trattati artigianalmente, sciorina un gioco fisionomico degno d’encomio. Nel rendere in maniera straniante ed esaustiva i copiosi piani di reazione di fronte agli assordanti rumori dell’opificio, ai toni distanti relativi alle voci festanti dei parenti nell’ambito della riunione dell’incipit, ghermita dalle riprese amatoriali d’un galante fotografo destinato a tornare a casa con le pive nel sacco, e soprattutto alle inopinate telefonate col padre carcerato. Al quale l’alacre Tommaso Ragno, in odore di David di Donatello per la prova fornita in Vermiglio nel ruolo del maestro di provincia dai valori arcaici predicati nell’alta Val di Sole sulle pendici del monte Boai, presta la voce duttile e profonda adattandola all’altalena degli stati d’animo dell’inquieta ragazza. Soggetta all’egemonia etica della bassa densità lessicale del meticcio vernacolo meridionale volto ad anteporre la schiettezza di andare subito al punto ai logorroici vaniloqui spesi per caldeggiare patetiche menzogne. L’intarsio di trambusti disturbanti ed eloquenti silenzi, di armoniche melodie e d’incalzanti palpiti, sebbene efficace, risulta parecchio risaputo. Basti pensare a Tre colori – Film rosso di Krzysztof Kieślowski con il magistrato in pensione che intercetta le conversazioni telefoniche dei vicini. La lucidità speculativa del racconto, garantita dall’ottima sceneggiatura, acquista l’idonea fragranza dell’originalità, al riparo dunque dall’impasse dei nani sulle spalle dei giganti, nella cura certosina di determinati dettagli. Nelle mani rovinate e doloranti messe a mollo in acqua e sale. Nelle epidermiche sprezzature d’umore. Nel sottosuolo dei gesti. Nella gamma cromatica che muta segno in funzione dell’attitudine ad adombrare, lontano dal mero preziosismo formale, l’amara consapevolezza dell’insanabile remitaggio. La lodevole sostanza ed ergo il contenuto principe dell’assunto.

Meno convincente allorché l’idonea polpa dei vani cambi di rotta, del sibilo del vento, indice d’un ordine naturale delle cose mal recepito, degli immancabili scoppi d’infeconda rabbia cede la ribalta alla gelatina dell’ovvia pittura desolante ulteriormente svilita dall’eccessiva fissità dell’ambiente. Il crinale dello sconforto, frammisto alla dissociazione di tipo psicotico dal tran tran scandito dalla mancanza di accudimento, innesca una sorta di documentario soggettivo. Che spezza l’incantesimo dell’intesa creata col genitore in prigione dall’animo gentile, desideroso di recuperare il tempo perduto, a causa della scissione d’inganno e disinganno. Luce in zona Cesarini rischia di cadere nelle banalità scintillanti delle modalità esplicative, sgombrando le vischiose nubi, inserite nella visuale periferica dell’eterna scontenta, allo scopo di mettere da ultimo a fuoco l’effigie degli affabili familiari intenti a ridere delle reciproche ed eccentriche pose catturate dalla pellicola dilettantistica, e chiude rapidamente il cerchio. Per eludere di rimandare la morale della favola, ravvisabile nel disadattamento di chi insiste a vedere il bicchiere mezzo vuoto, alle calende greche. All’attivo rimane comunque la solerzia di sondare i meandri dello spirito muliebre nel germoglio dell’età verde, con l’irrisolta fanciulla disposta ad abbandonarsi alla danza superata delle vecchie coppiette disdegnando i balli moderni coi negletti coetanei, per attribuire così all’algido realismo il disgelo dell’impronta surreale. Che non lenisce il pessimismo esistenziale, sempre troppo in voga, ma rinverdisce lo stesso la vetusta poesia del quotidiano dei panni sporchi lavati ormai fuori dal focolare domestico.
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