Lunana – Il villaggio alla fine del mondo: il Bhutan da Oscar

Se pensiamo che l’arte possa annientare le frontiere e scavallare qualsiasi tipo di muro sociale e culturale, un film come Lunana – Il villaggio alla fine del mondo ce ne dà la prova.

L’arte cinematografica, in questo caso, attraverso il progetto diretto da Pawo Choyning Dorji, si erge a manifesto culturale e visivo di una realtà orientale quasi sconosciuta, riuscendo addirittura a raggiungere quell’occidente che più occidente non si può: l’America.

Il lavoro di Pawo Choyning Dorji si guadagna la candidatura agli Oscar come miglior film internazionale (prima volta per un prodotto del Bhutan) mediante un certosino lavoro che danza leggiadro tra il raccontare la vera storia del protagonista e il mostrare le stupende immagini monumentali della catena montuosa dell’Himalaya. Ugyen, interpretato dal giovane Sherab Dorji, è un insegnante della Bhutan più moderna. Il suo sogno è quello di trasferirsi in Australia e diventare un cantante, il mestiere del maestro è una momentanea occupazione in cui non crede affatto. Ma le leggi sono chiare nel suo paese e per un altro anno deve svolgere quella mansione. Oltretutto, i suoi datori non sono magnanimi con lui e, a mo’ di ripicca, decidono di inviarlo a Lunana, il villaggio in cui si trova la scuola più isolata del Bhutan e dell’intero pianeta. Dopo i primi minuti che fungono da introduzione al personaggio e al suo contesto familiare e sociale, il film si trasforma in una sorta di road movie, rimanendo tale solo parzialmente, giusto il tempo di far passare i “soli” sei giorni di cammino che separano l’ultima cittadina dal suddetto villaggio, meta del viaggio.

Il percorso di Ugyen è scandito dalle didascalie che sottolineano i dati dei luoghi, altitudine e popolazione. All’aumentare dell’altitudine, si abbassa il numero degli abitanti e il livello di tecnologia disponibile. Il cellulare diventa inutile e la corrente un vecchio ricordo di un “futuro” così distante nel passato, abbandonato alle spalle da kilometri di salite, torrenti e nuvole sempre più a portata di mano. Lo scontro pacifico delle due realtà si manifesta sin da subito, dal benvenuto estremamente caloroso ricevuto dal maestro, che dall’essere “uno dei tanti” in città sente immediatamente il peso di una particolare notorietà sul posto, ai limiti del sacrale. L’insegnante della scuola di Lunana è già una celebrità, vista con riverenza e venerazione. Ugyen ne resta spiazzato, ma le condizioni disagiate di vita (almeno dal suo punto di vista), la mancanza di lavagne, carta per scrivere (a Lunana è preziosa la carta, viene messa agli infissi per sopperire alla mancanza di vetro per le finestre), la totale assenza di corrente elettrica (se non nei rarissimi momenti in cui l’energia solare dà segnali di vita) creano scetticismo nel ragazzo, tanto da spingerlo a rifiutare inizialmente la proposta di lavoro. Eppure qualcosa nel corso dei giorni cambia.

I rapporti con gli abitanti e i piccoli (meravigliosi) allievi aprono uno spiraglio di luce in lui. Ugyen, per la prima volta nella vita, comprende il concetto di “missione”. I bambini hanno bisogno di lui, i bambini vogliono lui. E Ugyen è disposto a rimangiarsi la parola e a restare, provando ad adempiere al difficile compito di ricambiare l’eccesso di ossequio che riceve man mano. Dunque l’IPod si spegne definitivamente, il silenzio paradisiaco del luogo è interrotto solo dai canti spirituali degli abitanti. E sarà la musica a far da collante definitivo tra i due universi esistenziali, divenendo ulteriore stimolo per comprendere cultura e anima del posto, al punto di aggiungere un personaggio in più all’interno della classe: il sacro Yak, l’animale simbolo di quelle terre. In poco tempo diventerà chiaro che Lunana non ha nulla, eppure ha tutto. Lunana – Il villaggio alla fine del mondo è un documentario mascherato da film. Un meraviglioso messaggio promozionale per “pubblicizzare” le bellezze paesaggistiche e la spiritualità di una terra davvero ai confini del mondo. Isolata lì dove nulla ha senso al di fuori della natura circostante e dell’appartenenza territoriale più pura, quella che ti porta a non dover cercare altrove una fantomatica, quanto illusoria, felicità.

 

 

Alessandro Bonanni