L’Uno: i valori dell’immaginazione nel cinema da camera

L’adattamento per il grande schermo della pièce teatrale L’Uno riesce ad alimentare i valori dell’immaginazione? L’approdo sulla piattaforma Chili e, successivamente, nei cinema, a quasi due anni di distanza dal debutto in palcoscenico, fornisce risposte discordanti in tal senso.

Da una parte le varianti apportate da Alessandro Antonaci, Stefano Mandalà e Daniel Lascar, affiancando l’originario direttore d’orchestra Paolo Carenzo sia nella ristesura del testo scritto dal gruppo Contrasto sia in cabina di regìa, applicano formule piuttosto prevedibili. Dall’altra il ricorso ad alcuni movimenti di macchina perlomeno curiosi riscatta l’ovvio leitmotiv narrativo, in cui domina la parola, con l’arguzia di cogliere in asincronia le reazioni mimiche della coppia costituita dall’energica Marta e dal comprensivo Tommaso. Le restrizioni governative imposte in merito al numero per l’insolita vigilia di Capodanno, a causa della presenza in cielo dell’oggetto volante ribattezzato l’Uno, l’attinenza col clima d’incertezza attuale e i fuochi d’artificio sospesi creano le premesse agli auspicabili colpi d’ala delle soluzioni tecniche. Per metterle però adeguatamente a frutto, lasciando il segno nell’interazione tra interni ed esterni, era necessaria una cifra stilistica più avvertita ed estrosa. La propensione ad abbinare gli ormai vetusti echi pirandelliani all’emblematica potenza dell’invisibile fiancheggia in tono minore compositi tratti distintivi bisognosi di maggior approfondimento. In primis l’inevitabile lavoro di sottrazione che, invece d’imprimere all’analisi degli stati d’animo l’indubbio valore aggiunto della suspense, finisce per risultare un mero espediente.

Quasi un rattoppo. Nell’inane proposito d’inchiodare l’interesse del pubblico e unire gli stilemi del cinema di pensiero con i tòpoi di quello d’anticipazione. In seconda battuta i contesti imbarazzanti creati ad arte per dare nerbo alla personalità degli invitati al cenone difettano d’ingegno. L’impeto tragicomico, sebbene connesso a qualche garbata sfumatura sul versante introspettivo, privilegia le inutili strizzatine d’occhio e i compiaciuti vezzi manieristici. Che vanno a caccia di grilli nel tentativo d’incentivare il processo d’identificazione con i personaggi. Intenti a disquisire, dopo i soliti convenevoli, sulla Spada di Damocle che li attanaglia dall’alto. L’ingannevole realismo fenomenico ed esistenziale traligna in bozzettismo aneddotico la catena, in teoria, casuale degli eventi. Dipanati dal basso, con brindisi incerti e toni canzonatori ai danni dell’ospite francese Claire. All’atto concreto l’alienazione sociale, rimossa dallo small talking sul coprifuoco, ritenuto superfluo al di là delle Alpi, attraversa una tastiera piuttosto ristretta di umori caustici, venati d’indefesso scetticismo, ed esorcizza le sbavature patetiche senza ribaltare davvero l’angoscia in acume satirico. La fugace fonte di spasso costituita dai flashback, introdotti dai movimenti di macchina da sinistra a destra che catturano i bisticci dialettici all’aperto prima dell’insorgere della minaccia aliena, ha il fiato troppo corto per contenere l’ampio tasso di emotività associato all’ancestrale paura dell’ignoto.

Il miscuglio di horror e farsa, con l’atipica carrellata da destra a sinistra che perlustra nel buio del ritrovo casalingo colmo di oggetti vintage l’impraticabile bisogno di vederci chiaro, stenta ad andare oltre la fatuità di certe insistite macchiette. L’ambiziosa ricerca dei timbri stravaganti ad appannaggio degli apologhi antiretorici sulla fine del mondo, anziché rappresentare una valida alternativa alle penombre psicologiche e alle usuali scene madri, mostra presto la corda. L’Uno, nel calare il racconto in un’assillante atmosfera satura d’interrogativi intimi, celati dietro l’apparente estroversione d’inizio film, e quesiti universali, ben lungi dall’essere risolti nei preordinati effetti speciali degli spettacoli pirotecnici, mena il can per l’aia. Toccando da vicino solo ed esclusivamente le nevrosi esacerbate dall’intangibile cupio dissolvi che alberga nello spazio chiuso al resto del pianeta. Le relazioni d’amore e d’amicizia, l’impaccio della riottosa conoscenza, l’aspettativa affidata a una rassicurante inversione di tendenza, dopo che i nodi vengono al pettine palesando la penuria di empatia grazie all’eterea partecipazione dello spettro celeste nell’emblematica camera, abbaiano alla luna. Sulla scorta dell’ennesimo vaso di Pandora. Svuotato per penetrare la complessità dell’argomento in chiave briosa. L’avvenire così, giunta la mezzanotte, diviene un monito d’inattesa speranza. L’extrema ratio del tenerume non basta tuttavia a sopperire ai capricci dell’opera a tema. Ricca di appelli enigmatici ma, stringi stringi, povera di sugo.

 

 

Massimiliano Serriello